L’Italia era pronta a qualcosa di estremo nel novembre 2011. Stoppare le emissioni di debito pubblico, evitare di scendere sul mercato obbligazionario per le aste di fine anno, bloccare Piazza affari. Il tutto contro lo spread dilagante, che continuava a salire sull’onda di una perdita di credibilità internazionale praticamente senza freno. Era pronto un decreto legge per fare ciò, preparato dal governo di Mario Monti e condiviso anche dalla Banca d’Italia. Le rivelazioni pubblicate oggi dal direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, portano l’Italia indietro di due anni, in quel 2011 di fuoco che fece capire al mondo quanto può essere fragile un Paese.
Un piano di contingenza. Ecco cosa fu preparato nell’autunno del 2011, aggiornato e affinato poi nei mesi successivi. Per fortuna, si potrebbe dire a priori. Ma il fatto che sia successo due anni fa non significa che uno scenario del genere non possa ripetersi. Anzi. E come sottolinea De Bortoli, tutto ruota intorno a un decreto che rimase in cassaforte, con la speranza che «vi resti per sempre». Una speranza vana?
Qualcosa di simile sta succedendo ora. Dopo un incontro congiunto fra Banca d’Italia, Consob, Ivass e Covip, cioè le massime autorità in tema di mercati finanziari in Italia, ieri sono state diramate comunicazioni precise per istituti bancari, fondi d’investimento, fondi pensioni e società di gestione del risparmio. In pratica, tutti gli operatori istituzionali. L’autarchia è la via da seguire, se si parla di agenzie di rating. Se la situazione dovesse precipitare ancora, meglio staccarsi dai loro giudizi per fare perno su valutazioni interne, ed autonome, nella gestione dei rischi di portafoglio. Tradotto: anche in caso di ulteriore declassamento da parte delle agenzie di rating, l’invito è a non sbarazzarsi dei titoli italiani in pancia. Con buona pace per le prassi in uso sui mercati finanziari. Un’autarchia tanto pericolosa quanto miope, specie in un Paese che invece di recepire le richieste degli investitori, ovvero riforme per migliorare competitività, produttività e struttura dello stato sociale al fine di rilanciare una crescita economica che definire anemica è un eufemismo, mette la testa nella sabbia. Un’autarchia che riporta alle settimane più scottanti per la Repubblica italiana.
In quei giorni neri, con il differenziale di rendimento fra i Btp decennali e i Bund di pari entità vicino ai massimi storici, avvenne poi un fatto molto particolare. Durante una riunione istituzionale l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni ricevette una telefonata. Era verso la fine di ottobre. I presenti, un pool ristretto di collaboratori, narrano che sbiancò. Dall’altra parte della cornetta c’era José Manuel Barroso, il numero uno della Commissione europea. Barroso fu chiaro con Maroni: «Non voglio che tu la prenda su un piano personale. Né tu né tutti gli altri esponenti del governo. Ma bisogna staccare la spina a Berlusconi». E in quel momento Barroso disse qual era la strategia. Dichiarazioni a ruota libera contro l’allora presidente del Consiglio. Da qualsiasi fronte, da qualsiasi policymaker europeo. Il messaggio da mandare era solo uno: Berlusconi è inadeguato. Lui, il Caimano, avrebbe poi resistito per ancora una decina di giorni prima di arrendersi all’evidenza.
Il turning point di tutto fu il G20 di Cannes. Nella cittadina della Costa Azzurra si consumò il delitto perfetto. Alla vigilia dei lavori intervenne anche Lord Adair Turner, presidente della Financial services authority (Fsa), al tempo regolatore finanziario britannico: «Per noi l’Italia è un problema ben più grande della Grecia. Occorre trovare una soluzione veloce per evitare il peggio». E per la due giorni di Cannes il mood era proprio questo. Evitare il caos. Preparare un piano di contingenza. Sia per la cacciata di Berlusconi, sia per la messa in sicurezza del Paese. E fu in quell’occasione che arrivano le sconfitte più dolorose per l’Italia. Dapprima le risatine fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sulla credibilità del governo in carica. Poi, nella notte del 4 novembre la capitolazione, per mano di Barroso e Van Rompuy. «L’Italia ha deciso di sua iniziativa di chiedere al Fondo monetario internazionale di monitorare i suoi impegni», disse il primo. Gli fece eco il secondo: «L’Italia ha invitato il Fmi a verificare ogni trimestre, in collegamento con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, l’attuazione delle misure». Il tutto a seguito dei moniti di Christine Lagarde. Del resto, i contatti fra Tesoro e Fmi ci furono proprio nel luglio di due anni fa, quando lo spread Btp/Bund schizzò in alto di centinaia di punti base in pochissimi giorni, passando dai 183 punti del primo luglio ai 332 del 18 dello stesso mese. I contatti fra ministero delle Finanze, dipartimento del debito pubblico, Banca d’Italia e l’istituzione di Washington furono fitti. E per la prima volta da diversi anni, come raccontano fonti bancarie, le telefonate fra istituzioni bancarie e Federal Reserve di New York divennero quotidiane. Si narra, ma sono solo voci degli ambienti finanziari, che Tremonti contattò pure il Paris club, ovvero i massimi esperti di ristrutturazione del debito pubblico, al fine di aver un parere autorevole sul da farsi. L’Italia era in balia di se stessa.
Poi arrivò Monti. E qualcosa, almeno sul piano della credibilità, cambiò. Supportato da Bruxelles, Washington e Parigi, Monti iniziò il programma di riforme prima di finire nel tritacarne della politica. Finita la paura dello spread a 500 punti base, tutto tornò come prima e per l’ex commissario europeo non ci fu altro da fare, se non entrare nelle sabbie mobili. Tutto tranquillo? Non proprio.
Nell’Italia di oggi ci sono delle analogie con quell’estate di due anni fa. Se escludiamo il bazooka (per ora a parole, ma tant’è) lanciato dalla Bce un anno fa, ovvero le Outright monetary transaction (Omt), si corre un quotidiano rischio: il crollo della fragile alleanza che supporta Enrico Letta. Un pericolo amplificato dai possibili esiti dei processi a Silvio Berlusconi, che potrebbe essere interdetto dai pubblici uffici, dando il via ad una girandola mortale per il Paese. Ed è paradossale che l’Italia debba di nuovo essere appesa al destino di Berlusconi. Qualcuno lo chiamerebbe karma.