La democrazia rappresentativa, diceva Bertrand de Jouvenel, è la finzione attraverso la quale i membri della società sono cittadini solo un giorno e sudditi per quattro anni.
Se già le prime costituzioni democratiche inserirono i cosiddetti istituti di democrazia diretta proprio per razionalizzare il principio di rappresentanza, solo con la contemporanea crisi degli Stati moderni si è diffusa l’idea che la democrazia sia solo, per intonarla con Gaber, una superstizione.
Da anni nella teoria e nella pratica democratica si moltiplicano ipotesi e strumenti di democrazia partecipativa, dalle consultazioni agli “ideari” a ogni forma di e-democracy che aiuti a dare sostanza alla partecipazione collettiva alle decisioni.
Anche i nostri ultimi governi sembrano aver preso la cosa sul serio, a vedere il numero di consultazioni avviate. Nel governo Monti se ne sono aperte sulle più svariate questioni di interesse politico: ci sono state, citando a memoria, le consultazioni sul valore legale del titolo di studio, sulla disciplina in materia di impatto della regolazione, sulle azioni e misure previste dal programma triennale per la trasparenza e l’integrità, sulla strategia energetica nazionale, sui principi fondamentali di internet, per non dire della mega-consultazione sulla spending review nella quale il governo (il governo!) chiedeva ai cittadini di segnalare gli sprechi.
Ma gli strumenti democratici, lo dice il termine, sono solo utensili nelle mani di chi detiene il potere di manovrarli. Anche per la democrazia partecipativa – dove tutti sono convinti di partecipare alle scelte politiche solo perché dicono la loro a un interlocutore che può ben fare orecchie da mercante – torna quindi valida l’idea (non solo) dejouveneliana che, non esistendo istituti che permettano davvero di far concorrere ognuno di noi all’esercizio del potere poiché il potere è comando e non possiamo tutti comandare, la sovranità popolare vada poco oltre la forma.
Il tranello, insomma, è il medesimo, ed è forse per placare gli animi adirati e ansiosi degli italiani che dal governo Monti in poi sono aumentate le occasioni di partecipazione a questa grande finzione, temporeggiando nella stasi politica e facendoci credere – nel frattempo – che qualcosa contiamo pure noi.
La democrazia si trasforma così in un questionario, come quello sulle riforme costituzionali, aperto l’8 luglio scorso. Esso si articola in tre livelli: uno breve, per chi volesse mettere in pochi secondi una crocetta a caso; uno di approfondimento, per chi – per mettere una crocetta anche a caso – si prende la briga di leggersi risposte multiple più articolate; e infine una terza fase “di discussione pubblica, con iniziative che non si esauriscono nell’ambito del web” – una specie di dogma della fede democratica, visto che non si sa ancora quali esse siano.
Un quiz a tutti gli effetti, con domande che assomigliano a quei test estivi compilati sotto l’ombrellone per sapere se si preferisce la montagna al mare. Si prenda la prima domanda del questionario breve: “Secondo te, l’attuale forma di governo deve essere modificata?”. Con tanto di risposte possibili che prevedono un “no” secco, un “altro” che non richiede spiegazioni e un “non so”. O la prima domanda del questionario di approfondimento: “A quale forma di governo ti senti più vicino?”.
Ma le riforme costituzionali non sono materia da quiz. Sono scelte importanti sulla struttura organizzativa di un paese. Per decidere di esse, bisogna avere una minima idea di come agisca il potere e di quali siano le conseguenze derivanti dal rapporto tra funzioni e organi di governo. Cose che si imparano, con lo studio e con l’esperienza. E certamente molti italiani hanno più buon senso di chi ci governa, ma pensare che esso possa essere condensato ed espresso in un quiz a risposta multipla è uno schiaffo alla pur minima intelligenza democratica.