“L’ultima notte e gli orari: su Moro non c’è verità”

Parla lo storico Giuseppe De Lutiis

Le istituzioni e gli apparati investigativi sarebbero venuti a conoscenza nelle prime ore del mattino del 9 maggio 1978 dell’avvenuto assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Sarebbero intervenuti alle 11 per controllare la Renault 4 rosso amaranto parcheggiata in Via Caetani e avrebbero scoperto la salma dello statista all’interno del portabagagli. Il tutto ben due ore prima rispetto agli orari ufficiali dell’epilogo del rapimento dell’ex Presidente della Dc: la telefonata di Valerio Morucci al suo allievo Franco Tritto verso le 12.30 e l’intervento delle forze di polizia con la ripresa in mondovisione della scena del crimine poco dopo le 13. Per capire fino a che punto possano trovare fondamento le rivelazioni rilasciate all’Ansa da parte dei due ex artificieri Vito Antonio Raso e Giovanni Circhetta, il nostro quotidiano ha interpellato Giuseppe De Lutiis, il più prestigioso storico italiano dei servizi segreti, studioso di eversione e poteri occulti, oltre che autore di una “Storia dei servizi segreti in Italia dal fascismo alla seconda Repubblica” e dei volumi “Perché Aldo Moro” e “Il golpe di Via Fani”.

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Cosa significa dal punto di vista politico e investigativo retrodatare di due ore la scoperta della salma di Aldo Moro?
Se le parole pronunciate dai due artificieri si rivelassero vere, sarebbero di una gravità inaudita e coinvolgerebbero le responsabilità di un uomo divenuto Capo dello Stato. Una figura dell’importanza di Francesco Cossiga, che avrebbe conservato un segreto così dirompente fino alla fine dei suoi giorni. Mi chiedo come sia stato possibile che una personalità dello Stato sia andata sul luogo in cui fu scoperto il cadavere della vittima più autorevole del terrorismo, e poi non abbia rivelato nulla a governo, magistratura e servizi segreti.

Perché i più alti rappresentanti dello Stato avrebbero mantenuto il silenzio su quell’arco di tempo cruciale?
Posso ipotizzare che un agente dei servizi di intelligence infiltrato nelle Brigate rosse sia venuto a conoscenza nelle prime ore del mattino della notizia dell’esecuzione dello statista democratico-cristiano e dell’abbandono della sua salma in Via Caetani. Che l’abbia trasmessa agli apparati di sicurezza e quindi alle forze dell’ordine. L’informativa non sarebbe stata resa pubblica per non pregiudicare l’incolumità dell’uomo.

La telefonata effettuata da Morucci per annunciare al mondo l’assassinio di Moro sarebbe stata costruita ad arte?
Ritengo di sì. Ma per comprendere chi ne siano stati gli artefici e quali contatti siano intercorsi tra le 11 e le 13 dovrebbero parlare gli appartenenti alle Br e gli uomini dell’intelligence operativi all’epoca. Persone che potrebbero sentirsi legate a qualche segreto di Stato inaccettabile per un crimine di tale portata. Ma gli interrogativi più inquietanti sono altri. 

Quali?
Se il maresciallo Raso afferma di aver incontrato alle 11 sulla piccola strada nel cuore di Roma il commissario di Polizia Federico Vito, il capo della DIGOS Domenico Spinella e il comandante del Nucleo investigativo dei Carabinieri Antonio Cornacchia, oltre al titolare del Viminale, mi chiedo quali settori dello Stato siano stati avvisati. I servizi segreti tutelavano Cossiga e i suoi uomini in una perlustrazione preventiva che doveva restare segreta? E i magistrati inquirenti erano stati avvertiti? Ma soprattutto quale utilizzo è stato compiuto delle due ore di “vuoto” che hanno contribuito a infittire l’opacità della mattina del 9 maggio? Se la magistratura non è in grado di trovare risposte ora che i reati sono caduti in prescrizione, un’inchiesta rigorosa può essere aperta dal Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza con il contributo dell’autorità delegata alla sicurezza della Repubblica.

Una delle testimonianze più sorprendenti dei due artificieri riguarda il colore e la fluidità del sangue trovato sul petto di Moro, “indizio di un omicidio risalente a non più di un’ora prima”.
Si tratta di affermazioni analoghe a quelle di chi parlava, alle 13.30 di quel giorno, di “un corpo ancora caldo”. Un elemento inquietante, che richiama un altro enigma tutto da dipanare: il luogo in cui Moro avrebbe trascorso l’ultima notte.

Lei non ha mai dato credito alla versione delle Br su un’ininterrotta prigionia di 55 giorni nel covo di Via Montalcini.
Come confermato da un’insegnante residente nel palazzo che avrebbe visto la mattina del 9 maggio i brigatisti uscire alle 6.30 dal garage con la Renault rossa, ricordo che quel condominio era grande e pieno di famiglie. Era sufficiente che Moro usasse una scopa contro il soffitto per attirare attenzione. Poi non vi sono prove certe della sua permanenza in quel palazzo rispetto ad altre zone della Capitale e del litorale romano. A partire da una villa sulla Via Aurelia in direzione Cerveteri, rimasta disabitata dal 1975 al 1980. Un luogo che avrebbe costituito una prigione ideale e non sospetta, oltre che compatibile con le tracce di sabbia rinvenute sulla salma del politico e con le buone condizioni fisico-igieniche del corpo.

Vito Antonio Raso pronuncia una frase significativa: “Rimasi profondamente turbato dal ritrovamento del cadavere anche perché ero convinto che le Brigate Rosse avrebbero rilasciato il prigioniero vivo”. Per autorevoli storici e analisti, l’identica illusione nutrita in quei giorni da Cossiga.
L’allora responsabile dell’interno era persuaso nelle ore a ridosso del 9 maggio di uno sbocco positivo del sequestro, forse grazie a una trattativa diretta o indiretta che si era messa in moto tra apparati dello Stato ed esponenti delle Br. Negoziato che si sarebbe improvvisamente interrotto a causa delle richieste di qualcuno che aveva alzato troppo il prezzo, per precipitare nel tragico epilogo. Anche se Cossiga non ha lasciato nulla di scritto, ritengo che tranne le loro “menti raffinate” Mario Moretti e Barbara Balzerani, gran parte dei militanti delle Brigate rosse siano stati esecutori inconsapevoli del delitto.

Non fu tutta italiana la matrice dell’assassinio di Aldo Moro?
Al di sopra dei brigatisti era attiva una variegata alleanza delle maggiori potenze internazionali del tempo, tutte intenzionate a porre fine all’esperimento di governo avviato da Aldo Moro che avrebbe l’equilibrio della loro egemonia. Forze ispirate dalla volontà di non danneggiarsi, di preservare la “pace nel mondo” fondata sul terrore, funzionale alla conservazione dei due imperi nati dalla Guerra fredda. Nel segno della parola d’ordine “Voi occidentali lasciate a noi sovietici la Polonia percorsa dai fermenti di Solidarnosc e noi non oseremo toccarvi l’Italia”. Per accreditare l’idea di un avallo bipartisan alle trame del terrorismo basti pensare alla centrale clandestina di Parigi mascherata dalla scuola di lingue Hyperion e sovra-ordinata allo stesso Moretti. I tre dirigenti della struttura erano rispettivamente legati al Mossad, all’intelligence cecoslovacca, alla CIA. E si riunivano ogni estate in una villa in Normandia appartenente ai servizi segreti Usa.