Lontano dalle luci della ribalta nomi poco patinati ma non meno importanti del made in Italy sono predatori affamati, non soltanto prede succulente. Certo, un cachemire Loro Piana fa più notizia. Eppure l’industria e la manifattura nazionale rappresentano una valida controargomentazione contro quanti in questi giorni si strappano le vesti invocando una politica industriale che latita (meglio così, vista la fine di Alitalia), biasimando i limiti del capitalismo familiare – ma Lvmh è tale – e le banche distratte da costose operazioni di sistema. Gli ingredienti per svilupparsi sono capitale e visione, e gli istituti italiani zavorrati di Btp non sembrano avere né l’uno né l’altra. Per fortuna non sono gli unici a cui rivolgersi, specie se un’impresa è orientata all’export e all’internazionalizzazione.
I dati raccolti nel volume Italia multinazionale 2012, curato per l’Ice da Sergio Mariotti e Marco Mutinelli, evidenziano che «le imprese all’estero comunque partecipate da imprese italiane (tra partecipazioni di controllo, paritarie e minoritarie) sono 27.191», danno lavoro a 1.5 milioni di dipendenti e hanno prodotto un fatturato pari a 583.762 milioni di euro. Di converso, «le imprese italiane partecipate dall’estero sono 8.492», per 886.245 dipendenti e fatturato a 498.452 milioni di euro. Il saldo della manifattura (meccanica e tessile), comparto che presenta il maggiore peso relativo, è nettamente sbilanciato oltre i confini nazionali: 7.779 imprese, 969.252 dipendenti e 482 milioni di fatturato aggregato per le aziende estere a controllo italiano, contro le 2.487 imprese, i 474.475 dipendenti e gli 86 milioni di fatturato delle società italiane partecipate da soci stranieri. Un dato che risente dei processi di delocalizzazione a cavallo del duemila: i settori a più elevata internazionalizzazione sono l’abbigliamento, «che supera la media complessiva del comparto manifatturiero (31,8%, percentuale calcolata parametrando i dipendenti delle imprese estere partecipate da imprese italiane e i dipendenti in Italia nelle imprese a base italiana non controllate dall’estero, ndr), il tessile (24,3%) e cuoio, calzature e pelletteria (22,9%)».
Le prede italiane degli ultimi 10 anni. Fonte: Kpmg
Mapei, Kerakoll, Saes Getters, Chiesi, Recordati, Rottapharm e Zambon sono solo alcuni dei nomi di medie imprese che a inizio del millennio hanno messo a segno acquisizioni importanti. La Mapei di Giorgio Squinzi, attuale presidente di Confindustria, è un caso da manuale: controllata al 100% dalla famiglia, non ha mai distribuito utili preferendo reinvestirli in azienda diventando leader mondiale nella nicchia dei prodotti chimici per l’edilizia. Pur con tutti i difetti di un classico paròn, che non ritiene ancora pronti i figli alla successione alla tenera età di 40 anni, Squinzi ha creato una multinazionale presente in tutto il mondo che nel 2011, ultimo bilancio disponibile, ha per esempio acquistato dalla Henkel le attività di adesivi per l’edilizia in Corea del Sud. Al netto degli episodi roboanti come l’operazione Fiat-Chrysler e, rimanendo in tema di automotive, il passaggio dell’Aston Martin alla Investindustrial di Andrea Bonomi, i protagonisti sono quelli che la società di consulenza Kpmg definisce “serial acquirer”: Campari, Luxottica, Brembo, Amplifon. Tutte con 8-10 mosse rilevanti a testa messe a segno nell’ultimo decennio. È sempre Kpmg che rivela come nel primo trimestre dell’anno siano state una quarantina le acquisizioni di marchi italiani, mentre negli ultimi dodici anni circa 1.180 le società italiane acquisite da investitori internazionali per un controvalore che si aggira intorno ai 200 miliardi di euro.
«Nel manifatturiero italiano all’estero gli addetti sono circa 1 milione, il doppio rispetto a imprese italiane a controllo estero. Nell’85, primo anno di rilevazione, il rapporto era contrario, e mentre i secondi sono rimasti stabili gli altri sono cresciuti del doppio» dice con ottimismo Marco Mutinelli, ordinario di Gestione Aziendale all’Università di Brescia, osservando: «Curiosamente proprio nel settore punta del made in Italy, l’alimentare, escluse Ferrero e Perfetti non abbiamo imprese che hanno fatto incetta di marchi come Nestlé e Unilever». Una debolezza paradossale.
Quando le grandi aziende esportavano cervelli e competenze invidiati nel mondo, nel lontano 1959, la Olivetti comprò la Underwood. Nel medesimo periodo l’Eni di Mattei si espandeva in Africa non senza creare qualche mal di pancia agli Usa. È tra il duemila – periodo in cui Ppr acquista Bottega Veneta e Gucci – e la vigilia del fallimento di Lehman Brothers che i big deal delle italiane fanno più rumore, tanto per le cifre quanto per i gruppi coinvolti: Unicredit si prende Hvb, Mediaset la Endemol, Enel rileva Endesa, Finmeccanica acquista Drs, Autogrill sfila Host a Marriott, Prysmian l’olandese Draka, Datalogic la Evolution Robotics Retail, Lavazza la Green Mountain Coffee Roasters, Italcementi la cinese Fuping Cement, Luxottica la Ray-Ban.
Non tutti si sono rivelati buoni affari: Hvb ha dato i suoi frutti nel bilancio di Piazza Cordusio solo l’anno scorso. Lo stesso non si può dire di Drs, Endesa, ed Endemol. Nel medesimo periodo, era il 2007, il gruppo petrolifero malese Petronas conquistava la Selenia, azienda attiva negli olii lubrificanti. Oggi a capo della divisione olii non solo ci sono due italiani, ma la società ha annunciato la costruzione di un nuovo stabilimento da 150 persone nel Comune di Villastellone (TO), sede della storica azienda che una volta gravitava nel perimetro Fiat. Operazione non meno virtuosa, se l’annuncio si tradurrà in fatti, dell’aver mantenuto la filliera toscana di Gucci, puntando sull’artigianalità del made in Italy.
Principali operazioni del 2012 (Fonte: Kpmg)
Nel 2012 (dati Kpmg) il comparto industriale chiude accordi con una ventina di società, per un valore complessivo di 2 miliardi di euro: Techint si accaparra l’olandese Bateman Engineering, attiva nella progettazione e fornitura di macchinari e servizi di ingegneria per l’industria mineraria con sede operativa in Sud Africa, Buzzi Unicem entra al 3% del gruppo cementifero tedesco Dyckerhoff, Interpump diventa azionista di maggioranza della brasiliana Takarada (prese di forza e componenti oleodinamici per veicoli industriali). Ancora la Accu-Sort Systems Inc, società statunitense di sistemi di automatic identification, finisce in pancia a Datalogic. Nel 2011 i protagonisti sono Cremonini con la brasiliana Inalca Jbs, Sogefi con la francese Mark IV Systemes Moteurs, e Recordati con la turca Dr. F. Frik Ilac.
Un pezzo di Italia industriale dunque si muove, ma ciò non significa che non manchino i problemi. Rafforzare il capitale per finanziare lo sviluppo è il primo punto dolente, che coinvolge le banche. Il secondo è accompagnare le imprese che non hanno la forza per racimolare capitali freschi e aprirsi da sole nuovi mercati. E qui casca l’asino, perché le Mittlestand tedesche hanno uno Stato che le pompa, noi uno distratto da altro. Uno spread dannoso tanto quanto quello sui bond del Tesoro.
Twitter: @antoniovanuzzo