MasterChef? Niente di nuovo. C’era già tutto nel Rinascimento, con i suoi cuochi-divi, personaggi celebri e celebrati, contesi a suon di dobloni da Papi e principi. Il Cinquecento è il secolo della cucina italiana, quello in cui i cuochi della Penisola sono gli indubbi re dei banchetti (mentre nel XVII secolo la palma passa alla Francia).
Il primo ricettario a stampa che si conosca è quello di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, un lombardo della provincia di Cremona (di Piadena, per la precisione). Platina, più che uomo di mestolo e tegame era uomo di penna e calamaio, infatti da raffinato umanista qual era, venne nominato prefetto della Biblioteca Vaticana da Sisto IV. Ma l’interesse per la “cultura materiale” è ben più antico di Slow Food, e Platina pubblica, in latino, la summa della cucina rinascimentale, dal titolo De la honesta voluptate et valitudine (sfoglia il libro), stampato per la prima volta a Roma tra il 1473 e 1475 in un’edizione clandestina senza luogo e data, mentre la prima edizione ufficiale è quella di Venezia del 15 dicembre 1475. Il volume ha vastissime ripercussioni sulla storia culinaria d’Europa del primo Rinascimento perché la trascrizione del Platina viene tradotta non solo in italiano, ma anche in tedesco e francese.
Proprio a Roma, Platina conosce il cuoco-divo del suo tempo, Mastro Martino da Como, che cucina per il patriarca di Aquileia, il veneziano Ludovico Trevisan. Quest’ultimo non metterà mai piede nella cittadina della bassa friulana, preferendole la più vivace Roma, dove si porta dietro il cuoco. Nel ricettario di mastro Martino c’è tutta la cucina italiana: maccheroni, gnocchi, vermicelli, lasagne, ravioli, pasticci… È anche il primo a indicare dosi e tempi di cottura. Platina riprenderà le sue ricette.
Cristoforo di Messisbugo, conte palatino, è scalco del cardinale Ippolito d’Este. Scalco significa più o meno comandante in capo, con responsabilità sia sulla cucina, sia sulla sala, ma anche impresario teatrale e addetto alle pubbliche relazioni. Nel 1564, a Venezia, pubblica il Libro novo nel qual s’insegna a’ far d’ogni sorte di viuanda (sfoglia il libro), nel quale riporta un certo numero di ricette, ma soprattutto spiega come si debba tenere un banchetto. La tavola è per il signore rinascimentale il modo per affermare la sua potenza e la sua ricchezza. Nel banchetto offerto dagli estensi il 24 gennaio 1539 a Ferrara intervengono l’arcivescovo di Milano e gli ambasciatori di Venezia e Madrid. A tavola si sistemano 104 persone, dal pomeriggio fino “a giorno chiaro”. Tra una portata e l’altra si alternano le recite di un’opera di Ludovico Ariosto (al tempo dipendente di Messisbugo), alcune cantate del Ruzante, e musiche eseguite da tre orchestre da camera. Anche le portate devono stupire e quindi è “normale” che un pavone arrosto venga rivestito della sua pelle completa di piume e penne e sia portato in tavola in questo modo. È altrettanto “normale” che un castello di zucchero si apra al momento di arrivare in tavola, lasciando uscire un nugolo di uccellini cinquettanti, mentre un numero altrettanto cospicuo di loro colleghi voltili meno fortunati raggiunge il tavolo a bordo di fumanti piatti da portata.
Messisbugo riporta la ricetta di «pani di latte e zuccaro» che richiedono «farina ben burrata», «ma anche uova, burro e acqua di rose». Canditi a parte, è senza alcuna ombra di dubbio l’antenato del panettone. Parla anche di «pizza» (sebbene fritta e non al forno, ma usa proprio quella parola), di «formaggio parmeggiano» e di come fare i prosciutti.
Non molti anni dopo, nel 1570, vede la luce, sempre a Venezia, l’Opera di Bartolomeo Scappi, cuoco “segreto” (ma sta a significare “privato”) di papa Pio V. Anche questo libro è un ricettario fondamentale della sua epoca, in grado di far circolare il nome del suo compilatore per ogni dove. Scappi nasce a Dumenza, nel Varesotto, passa dal servizio di un cardinale all’altro, approda alle cucine pontificie con Pio IV per poi essere scelto come chef personale dal suo successore. Scappi è colui che codifica il pasticcio e la torta, entrambe specialità dell’Italia rinascimentale. Nel medioevo si cucinavano carni, soprattuto allo spiedo (ce n’erano anche di giganteschi, capaci d’infilzare e arrostire un bue intero), all’inizio dell’età moderna trionfa il forno, e si passa a confezionare cibi che si cucinano avvolti in uno strato di pasta (preparazione già conosciuta anche dai romani, ma prima di allora poco diffusa). La distinzione codificata in quei tempi è sopravvissuta fino ai nostri giorni: la crosta dolce, ovvero la pasta frolla, si adatta a carni, maccheroni, talvolta pesci, e abbiamo il pasticcio. La pasta salata si accoppia con verdure, formaggio e uova, e si ottiene la torta. Questa seconda preparazione più adatta ai poveri perché è priva dell’allora costosissimo zucchero. Una piccola torta, cioè un po’ di pasta ripiena, piegata e cucinata nel brodo anziché nel forno, prende il nome di tortellino.
Anche l’Opera di Scappi conosce una formidabile diffusione, così come grande successo aveva avuto la Singolar dottrina (sfoglia il libro), pubblicata a Venezia nel 1560, di Domenico Romoli, detto il Panunto, fiorentino, che era stato scalco di Leone X. È il primo a fornirci qualche indicazione sugli abbinamenti vino-cibo: vini bianchi a bassa gradazione per gli antipasti e i lessi, vini rossi con gli arrosti, vini dolci e speziati assieme alla frutta. La fama di Romoli sopravvive per secoli, tanto che nel 1705 viene stampato un ricettario dal titolo Il Panunto toscano e ai primi del Novecento, a Roma, i cuochi si prendevano in giro dicendo: «L’hai letto nel Panunto?». E al tempo gli chef non diventavano certo famosi per essere andati in tv.
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