Mc Donald’s si rifiuta di aprire in Cisgiordania

Nella colonia di Ariel

A venticinque minuti di macchina da Tel Aviv, oltre la Green Line, c’è l’insediamento della discordia. Ha 18.000 residenti, un nome rigorosamente biblico, Ariel, e da qualche mese non perde occasione per fare parlare di sé.

Ricordate la vicenda degli autobus per soli arabi, destinati ai lavoratori che ogni giorno dalla Cisgiordania varcano i checkpoint per guadagnarsi un salario in Israele? La decisione del ministro dei Trasporti di Gerusalemme, Yisrael Katz, di riservare due linee ai palestinesi aveva generato paralleli con l’America segregazionista degli anni Cinquanta e con il Sudafrica dell’apartheid. Bene, il servizio era stato lanciato in seguito alle proteste mosse dai coloni di Ariel, che non accettavano la presenza degli arabi alla fermata o a bordo dei pullman comuni.

L’insediamento è diventato un simbolo delle rivendicazioni israeliane sulla Cisgiordania, un totem per la destra sensibile alle ragioni dei coloni, parte integrante del governo Netanyahu (vedi il ministro del Lavoro, Naftali Bennett). Così, quando ad Omri Padan, businessman, proprietario di McDonald’s Israele, ma attivista politico, fondatore in gioventù del gruppo progressista «Peace Now», è stato proposto di aprire un ristorante della catena nel nuovo centro commerciale, da venti milioni di euro, in costruzione ad Ariel, la risposta è stata negativa.

Dal rifiuto di Padan, annunciato solo qualche giorno fa, è scaturita una battaglia politica, combattuta a colpi di panino, McDonald’s contro Burger Ranch. I coloni hanno invitato a boicottare in tutto il Paese i 180 ristoranti della più famosa catena di fast food del pianeta, compresi quelli riconosciuti come kasher, a favore della concorrenza che, a quanto pare, avrebbe accettato di aprire un negozio nell’insediamento. Il sindaco di Ariel, Eliyahu Shaviro, ha accusato la McDonald’s di discriminazione, con un slogan che faticherebbe ovunque, e a maggior ragione in Cisgiordania, a diventare realtà: «La cultura e il commercio devono essere lasciati fuori dalla politica». Rami Levy, il re dei supermercati israeliani, responsabile del progetto, non distante politicamente da Netanyahu, ha sostanzialmente accusato le parti in causa di auto-lesionismo: «Il centro commerciale occuperà sia personale arabo che ebraico e servirà entrambe le popolazioni».

Può sembrare un paradosso che il panino global per eccellenza, il simbolo dell’imperialismo culturale yankee, da respingere, secondo certa sinistra, a colpi di camembert, sia diventato un’icona della campagna contro i coloni. In realtà, la McDonald’s ha ricordato che «la politica di non aprire filiali oltre la Linea Verde è ben nota da anni». E Ariel, in particolare, sta assumendo, come detto, contorni totemici. Per capirlo è sufficiente seguire la storia della scuola fondata nel 1982, all’interno dell’insediamento, da Yigal Cohen Orgad, un ambizioso avvocato del Likud, assieme a un piccolo gruppo di professori e a una pattuglia agguerrita di coloni.

L’istituto ha cambiato denominazione nel 2007, passando da College of Judea and Samaria a Ariel University Center of Samaria, senza ottenere però l’accreditamento da parte del governo di Gerusalemme. Nel settembre 2012, dopo anni di dibattiti, Netanyahu ha compiuto questo passo, dando il via libera alla proposta di trasformare il collegio in un’università a pieno titolo, equiparabile agli atenei presenti in territorio israeliano. A dicembre è arrivato anche il parere positivo del procuratore generale di Israele, Yehuda Weinstein.

Lo status di Ariel ha inevitabilmente alimentato il fuoco delle polemiche. Un fuoco incrociato, in questo caso. I palestinesi, spalleggiati dalla comunità internazionale, hanno accusato lo Stato ebraico di usare la scuola come un grimaldello per annettere entro i propri confini la colonia e hanno parlato esplicitamente di boicottaggio. La stessa Gran Bretagna, per bocca di Alistair Burt, sottosegretario agli Esteri con delega per il Medio Oriente, non ha certo usato parole di velluto: «Siamo profondamente delusi dalla decisione di trasformare il collegio di Ariel in una vera e propria università, una scelta che creerà ulteriori ostacoli alla pace. Ariel è al di là della Green Line, in un insediamento illegale secondo il diritto internazionale». A colpire, però, è stato soprattutto l’altro fronte, il fuoco “amico”, quello dei rettori di sette università israeliane, che hanno presentato una petizione alla Corte Suprema per bloccare il progetto. La motivazione? Il riconoscimento di Ariel accrescerebbe l’isolamento del Paese. La vera ragione? In questo modo verrebbero tagliati i fondi a loro disposizione, perché sarebbero costretti a condividere con un altro soggetto la torta dei finanziamenti.

Il premier Netanyahu ha tenuto la barra dritta: «Ariel è una parte inseparabile del nostro Stato. Negli ultimi decenni la popolazione israeliana è raddoppiata e c’è una forte domanda di educazione universitaria». Il ministro delle Finanze, Yair Lapid, ha stanziato una cifra pari a 14 milioni di dollari per il sostegno alla scuola, che ha attualmente 13.000 studenti, in buona parte iscritti a facoltà scientifiche, come chimica e ingegneria. Ad oggi l’università si appoggia principalmente sugli investimenti delle compagnie, che finanziano i progetti di ricerca, e sulle donazioni dei privati, a partire da Irving Moskowitz, un magnate della Florida, noto per il suo sostegno alla causa dei coloni.

Il caso di Ariel è talmente sensibile da avere fatto breccia nel protocollo della Casa Bianca. All’incontro di Barack Obama con un gruppo di studenti universitari israeliani, il 21 marzo, al Jerusalem convention center, i grandi assenti erano proprio gli allievi del contestato ateneo. Un’esclusione motivata col linguaggio della burocrazia – «l’università non è coinvolta in alcun programma di partnership con quelle americane – ma dal significato smaccatamente politico. Invitare gli studenti di Ariel, hanno ragionato a Washington, avrebbe comportato una legittimazione delle rivendicazioni israeliane su una sezione della Cisgiordania, e la questione degli insediamenti, come è noto, rappresenta uno dei maggiori ostacoli al processo di pace.

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