Detroit, capitale dell’industria automobilistica a stelle e strisce, è fallita. Schiacciata da un debito che potrebbe sfiorare i 20 miliardi di dollari. Ben più di quanto servirebbe alla Fiat di Sergio Marchionne per realizzare l’agognata fusione con Chrysler. Che proprio nell’area metropolitana di Detroit ha il suo quartier generale, al pari dei due giganti Ford e General Motors.
«Questo è un giorno molto deprimente. Sembriamo una nazione europea. – dice a Linkiesta un infuriato cittadino di Detroit che si scaglia contro sindacati, politici e governo federale; tutto e tutti, in poche parole. Sul web i commenti non sono più teneri: c’è chi incolpa la “sinistra” («Congratulations, liberalism»), chi estende la responsabilità anche ad altri (“per 50 anni a Detroit c’è stata la dittatura dei democratici e dei sindacati”), chi se la prende con il mondo degli affari, chi si limita a temere per la sua pensione. Di certo quella di Detroit è la più grande bancarotta municipale della storia americana.
Lo titola anche l’edizione online del Detroit News, influente quotidiano cittadino. Ancora più impietoso il New York Times, che descrive il declino della metropoli in un articolo che a tratti sembra quasi un necrologio: quella che un tempo fu “la quarta città più popolosa della nazione” (1,8 milioni di abitanti nel 1950) “è oggi la casa di 700mila persone, così come di decine di migliaia di edifici abbandonati, lotti vuoti e strade non illuminate”.
Tutto vero, naturalmente. L’unica, dolorosa strada che Detroit può oggi percorrere è quella della bancarotta. Parola di Kevyn D. Orr, emergency manager scelto dal governatore del Michigan Rick Snyder per salvare la città di Eminem e Robocop. Chiamato a vincere le “Olimpiadi della ristrutturazione” (del debito), alla fine l’avvocato Orr ha dovuto gettare la spugna. Lo stesso Snyder (coriaceo repubblicano che a Detroit ha preso ben pochi voti) ha sottolineato la gravità dei problemi della città: il tasso di omicidi è ai massimi degli ultimi 40 anni; la disoccupazione galoppa; appena un terzo delle ambulanze sono in servizio; gli edifici abbandonati ammontano a 78mila.
In effetti Detroit è da anni il simbolo della deindustrializzazione a stelle e strisce. L’epicentro di una catastrofe economica, sociale e demografica che ha piegato le metropoli del Midwest e del Nordest statunitensi. «Ground zero di un intero modello di sviluppo». Così le ha definite a Linkiesta, lo scorso ottobre, il milanese Alessandro Coppola, studioso di fenomeni urbani e autore del saggio Apocalypse Town (Laterza). Perché città come Detroit (o Flint; o Cleveland; o Buffalo) ospitano tristi «deserti urbani» dove «curarsi e fare la spesa, studiare e spostarsi, lavorare e andare al cinema è diventato incredibilmente difficile, talvolta impossibile». Realtà dove scarseggiano i cibi freschi ma avanza la natura selvaggia, le downtown si svuotano e le gang crescono (al pari degli orti urbani).
Suggestioni post-apocalittiche a parte, Detroit ha davvero vissuto un profondo declino. Tra il 2000 e il 2010 la città ha perso un quarto dei suoi abitanti, lasciando allibiti persino i suoi amministratori. E tra il 2007 e il 2011 le persone sotto la soglia di povertà sono passate dal 15,7% della popolazione al 36,2%, mentre il reddito pro capite è crollato da 25mila dollari e passa a poco più di 15mila.
«Le cause della bancarotta sono tre» dichiara a Linkiesta il professor Michael DiGiovanni, docente di economia alla University of Detroit Mercy e per 31 anni Executive Director of Global Market & Industry Analysis alla General Motors. «La prima causa della bancarotta è la migrazione della popolazione di Detroit, iniziata alla fine degli anni Cinquanta, verso i sobborghi, che ha portato al restringimento della base fiscale.» La seconda è che «dalla fine degli anni Sessanta abbiamo avuto una pubblica amministrazione generalmente corrotta, che si è appropriata di denaro della città.» Terza ragione poi è «la grande recessione iniziata nel 2007, che ha investito l’industria dell’auto, portando le stesse General Motors e Chrysler a dichiarare bancarotta.»
Una decennale cattiva amministrazione è una causa primaria anche per il professor Mike Bernacchi, docente di business administration sempre alla University of Detroit Mercy, nonché direttore della newsletter settimanale Under the Mike-Roscope. Per Bernacchi «la città non è stata ben amministrata dal punto di vista finanziario per un lungo, lungo tempo.» Parlando con Linkiesta il docente osserva poi che «non fa una gran differenza se si dichiara la bancarotta di Detroit dal punto di vista legale o meno, perché Detroit è già in bancarotta, una bancarotta con la b maiuscola. Le formalità legali della bancarotta sono esattamente questo… delle formalità legali.»
Bernacchi ha senza dubbio ragione: quando ai creditori si chiede di accettare pennies al posto di dollari, come ha fatto Orr a giugno per alcune tipologie di bond cittadini, è difficile non parlare di bancarotta. Secondo DiGiovanni dichiarare bancarotta è «la cosa giusta da fare, perché il debito della città è così grande che non se ne può uscire in altri modi.»
A ricordare, comunque, che i cittadini di Detroit possono farcela provvede la connazionale Lia Adelfi, vice-presidente del comitato del Michigan della Dante Alighieri Society. «La crisi c’è stata, ma gli americani si danno da fare moltissimo. Io sono assolutamente ottimista sul futuro della città, ho fiducia nella mentalità americana. – sottolinea a Linkiesta.
Nella Silicon Valley, storico motore dell’innovazione made in USA, si dice: “fallisci, ma fallisci in fretta”. Ecco, probabilmente può essere questo l’augurio per la città di Detroit. Fallire, ma in fretta, e rimettersi presto in piedi. Come ha fatto la General Motors, nume tutelare di Detroit. Tornata in borsa lo scorso mese, a soli quattro anni da una traumatica bancarotta.