“Non abbiamo una classe dirigente, servono think tank”

Circa 106 quelli censiti in Italia

Nati negli Stati Uniti più di un secolo fa per orientare e condizionare governi e opinione pubblica, i think tank stanno radicandosi anche nella politica europea. In Italia ogni anno nascono nuove fondazioni politiche, associazioni, centri studi e forum, con l’obiettivo di alimentare il dibattito culturale, influenzare le scelte del decisore pubblico o promuovere una specifica agenda politico-culturale. L’indebolimento dei partiti tradizionali, non più capaci di esprimere una solida cultura politica, ha favorito l’emersione di una pluralità di punti di vista e di strutture decentrate di dibattito e produzione di idee, spesso collegate al singolo leader e alla singola corrente. Talvolta sono articolazioni indispensabili all’attività politica, veri e propri consulenti esterni, incaricati di pensare programmi politici e azione di governo. Per farci largo nel mare magnum dei “serbatoi di idee” italiani, Linkiesta ne parla con Mattia Diletti, docente di Scienza politica all’università Sapienza di Roma e autore del volume Think Tank – Le fabbriche delle idee in America ed Europa, edito da Il Mulino.

Professor Diletti, da quando Enrico Letta è al Governo si parla sempre più spesso di “think tank”, termine che è entrato ormai da tempo anche nel lessico politico italiano. Che cosa sono?
Il termine “think tank” è un’invenzione americana che risale al secondo Dopoguerra, con cui si definiscono i centri che svolgono attività di studio e ricerca indipendente, rivolti all’innovazione della cultura politica o delle politiche pubbliche; possiamo tradurre il termine con “serbatoio di pensiero”. Il loro obiettivo è quello di influenzare il dibattito pubblico intorno alle politiche da seguire oppure quello di influenzare direttamente il decisore pubblico. Negli Stati Uniti sono un supporto fondamentale all’attività politica: gli esperti che dibattono e producono idee cercano di influenzare l’opinione pubblica perché anche i decisori ne siano condizionati, oppure cercano direttamente un rapporto, una relazione diretta, con il governo e la politica.

In Europa hanno lo stesso ruolo indispensabile come per la politica americana?
La loro funzione è quella di aiutare il governo, e più in generale la classe politica, a pensare. Sono gruppi di tecnici che dibattono scientificamente sui settori di politica pubblica e costituiscono una risorsa per la politica. Negli Usa c’è una tradizione centenaria al riguardo e condizioni strutturali che non permettono di replicare quell’esperienza in Europa. Non abbiamo, tanto meno in Italia, le stesse strutture di ricerca degli americani, né la stessa convinzione culturale che sia imprescindibile investire nella ricerca. Che sia politica, scientifica od orientata al business. In America, i think tank sono università senza studenti, con un elevatissima qualità di uomini e di elaborazioni prodotte. Non godono di finanziamenti pubblici e reperiscono i loro capitali dai privati. Da noi, i finanziamenti sono spesso anche pubblici, ma sempre troppo esigui e questo inficia il risultato finale delle ricerche.

Questo significa che senza intellettuali e studiosi che pensino i programmi, la politica rimane solo tecnica di ricerca del consenso e slogan elettorali?
Negli Usa, i think tank, fino agli anni Settanta, erano strumenti di ausilio tecnico alle politiche pubbliche: strutture di grande prestigio che offrivano expertise e fornivano esperti per l’amministrazione, ma sempre neutrali. Successivamente repubblicani e democratici decisero di dotarsi di propri centri di produzione di idee e di programmi. In America, le idee sono diventate un business molto munifico, capace di orientare la nazione verso l’uno o verso l’altro schieramento. È un ciclo virtuoso che crea un mercato solido: alla base di tutto c’è la richiesta costante di conoscenza da parte della politica, che così facendo stimola concorrenza nell’offerta e innovazione nella ricerca. Intanto però i think tank, per accreditarsi e imporsi, puntano su strategie di marketing e comunicazione sempre più invasivi. Sono vere e proprie aziende: producono e vendono idee, rendendo la ricerca un prodotto su cui investire.

Fare della ricerca un business? Un concetto che in Italia non esiste, anche se i think tank aumentano sempre di più. Abbiamo fatto male i compiti?
Anche in Italia abbiamo think tank “all’americana” tra i 106 che abbiamo censito. Fanno ricerca, ma hanno spesso difficoltà a influenzare e raggiungere il decisore e l’opinione pubblica. Non riescono, talvolta, neanche a far uscire il dibattito dai loro convegni, figuriamoci raggiungere il Parlamento o il Governo. Hanno budget limitatissimi che ne fanno un’arma spuntata, non inutile, ma depotenziata.

È il complesso dello sbarco. Gli americani li abbiamo sempre imitati e sempre male. Come se lo spiega però il dilagare di fondazioni politiche, associazioni e forum culturali personali, legati ai singoli politici piuttosto che all’obiettivo di fare ricerca? Rischiano di essere un semplice strumento di autopromozione e legittimazione, una vetrina per apparire.
I think tank personali, esplosi da metà degli anni Novanta, sono un unicum e un’anomalia tutta italiana. Li abbiamo chiamati così, parafrasando la nota definizione di Mauro Calise di “partito personale”. Eppure i think tank personali sono il paradigma della politica italiana e sono il risultato delle specifiche condizioni della sua degenerazione. Tutto è dovuto alla crisi dei partiti tradizionali, avviatasi alla fine della prima repubblica, e al conseguente processo di personalizzazione della politica. Con questo non voglio dire che i think tank siano correnti utilizzate dal leader di turno per imporre il proprio peso. Sono ditte individuali, che seguono il destino del proprio padre padrone. Le posso citare Gianni De Michelis, presidente dell’Ipalmo, che, su questa nuova moda di istituire fondazioni, disse lapidario: “Magari ci fossero le correnti, quelle sì che erano una cosa seria”.

Quindi sono solo un giocattolo per i politici?
No, non è vero. Alcune di queste fondazioni personali producono lavoro di qualità, anche se è molto raro però che facciano ricerca in proprio. Utilizzano sempre lo stesso meccanismo: prendono ricerche da fuori, le rielaborano adattandole e le divulgano in ambito politico. Il prodotto in parte è buono, anche se quelle che lavorano bene sono poche. Analizzarle è comunque un problema. La fotografia è sempre in movimento perché seguono le fortune e le sfortune dei singoli politici che le animano e le rappresentano. Sono il frutto di una necessità di autolegittimazione ed emersione dei singoli leader. E il contenuto, spesso, è stato sostituito dalle relazioni: con la stampa, i finanziatori… Queste contano più di ciò che si dice. Alla fine si tratta di una scorciatoia, anche perché sono proprio i partiti che non funzionano più, che non riescono più a produrre idee, perché sono centrali balcanizzate.

Il 32% dei think tank italiani sono personali, mentre il 41% è orientato politicamente? Questo significa che i partiti sono morti e le buone idee sono lontano dalla politica?
“La Repubblica dei think tank” è la metafora più rappresentativa della cifra politica della seconda repubblica. La chiave di lettura di tutto il fenomeno è l’estrema frammentazione dell’offerta politica, che è solo apparentemente mascherata dai grandi partiti e nel centro destra dalla forza e dal carisma di Berlusconi.
E non è un caso che in questo sistema partitico polverizzato, che si nasconde in un apparente bipolarismo o in una bipolarizzazione di sfere di influenze, le figure che emergono sono proprio quelle che fanno da pontiere come il premier Letta. Nella nostra ricerca, Letta emerge come il politico che entra nel maggior numero di board che abbiamo censito. In questa fase politica e storica ciò che più conta è il potere relazionale. Più il contenitore politico e i partiti sono labili, più emerge la dimensione relazionale della politica. Esisteva anche nella prima repubblica questa componente, ma vi erano partiti consolidati. Oggi emergono queste figure di congiunzione, “apritori” di porte tra opposti schieramenti, coltivatori di relazioni trasversali. Nel bene e nel male.

Dove si trovano quelli personali? Più vicini al centrosinistra o al centrodestra?
I think tank personali sono in maggioranza nel centrosinistra. Perché è l’area politica che si apre di più alla frammentazione e alla mancanza di continuità di leadership. Il centrosinistra è un partito più balcanizzato, mentre il centrodestra ha un leader, Berlusconi, che non ha avuto bisogno né interesse nell’investire in cultura politica. Ha una visione culturale propria, ma non ha dimostrato interesse a diffonderla in maniera organizzata. Non è un caso che le fondazioni politiche nel centro destra siano nate dopo la nascita del Pdl, che non è mai riuscito a trovare unità e dove tutti i vecchi leader cercavano di emergere sul capo, considerato stanco e appannato. Sono stati gli ex An i primi a voler investire su questi centri, anche per non disperdere la propria cultura e identità.

Una fuga dai partiti e dalla politica. Si spostano i centri decisionali dalle sedi di dibattito istituzionale verso altre fuori dal Palazzo.
Il problema è sempre lo stesso. Manca una formazione politica efficace, e servirebbe molto anche in basso, nei territori, nei comuni. Una classe politica all’altezza sa usare le istituzioni e i luoghi tradizionali della decisione politica.
In questi mesi, con i miei collaboratori stiamo conducendo una nuova ricerca sui centri di formazione politica e solo in Rete ne abbiamo contati più di 80. Sono un numero pazzesco. Questo perché c’è grande richiesta di formazione da parte della classe dirigente, ma c’è anche un grande disorientamento nella produzione di cultura politica e sapere condiviso. Quanto potrà reggere questo sistema così frammentato e dispersivo? Bisognerebbe almeno coordinarli questi centri, offrire alla classe dirigente diffusa strutture di supporto adeguate, a metà tra il think tank e la scuola di addestramento: non solo sulle policy, ma anche sul come si costruisce consenso, partecipazione, iniziativa politica. A ognuno secondo le sue esigenze locali o tematiche.

C’è qualità ed efficienza in Italia?
Poca e a macchia di leopardo, anche perché non ci sono i soldi per finanziare la ricerca. Ci sono, di certo, picchi di eccellenza anche in Italia. Ma con un budget medio di 800mila euro all’anno come si fa a produrre ricerca di qualità come le strutture multimilionarie americane?

Ma alla fine servono a qualcosa in Italia o sono passatempi per coltivare relazioni?
Non è vero che non servono, ma potrebbero fare molto di più. La nostra indagine ha rivelato che solo i centri studi che si aprono alle relazioni, anche internazionali, e creano con omologhi nazionali ed europei una rete di sapere, sono quelli vincenti. In politica estera il nostro sistema di think tank, come Iai e Ispi, è ben radicato nelle relazioni internazionali ed è di grande ausilio per le istituzioni nazionali. Le riporto il caso del Cerfe, che non conoscevamo bene neanche noi ricercatori, ma è uno dei pochissimi enti riconosciuti e accreditati nel rapporto stabile con la Banca Mondiale. I centri di ricerca italiani avrebbero bisogno di interventi radicali che permettano di lavorare sul prodotto, sulla comunicazione e capacità di diffusione del messaggio. Abbiamo grandi potenzialità, alcuni prodotti di qualità, ma non li sappiamo promuovere. Bisognerebbe, anche per rispondere all’esigenza primaria di formazione, ristrutturare e disciplinare le fondazioni politiche come in Germania. Lì sono obbligate a formare e ad elaborare iniziative pubbliche; sono al servizio della politica e fanno innovazione.

Il governo viene quasi tutto da VeDrò, il think tank di Letta. Professore, lo ammetta, più che idee, producono incarichi.
Vedrò ha svolto la sua funzione, e ha portato un pezzo di classe dirigente trasversale al potere. Trasversale politicamente, ma anche per ruolo e funzioni: aziende, media, politica, burocrazia… È stato centro di confronto – più un forum di discussione che un produttore di idee proprie, soprattutto all’inizio – e uno strumento per costruire relazioni molto forti, anche tra mondo dei media e politica. Molti giornalisti sembrano essersi costruiti la propria agenda in quella sede. È chiaro che se il modello Vedrò diventa paradigma di governo produce incarichi, ministri, sottosegretari.

L’Italia, da quello ci sta raccontando, è un paese dove si fa a gara per produrre idee. E allora perché siamo in questa condizione?
Evidentemente non funzionano bene oppure non c’è una massa critica di pensatoi ben funzionanti sufficiente a coinvolgere il dibattito pubblico. Non è colpa solo dei think tank, il loro funzionamento è solo un sintomo. Alla radice c’è un problema strutturale del paese che è difficile cambiare: c’è troppa poca classe dirigente capace di produrre visione di sistema, di tenere insieme la comprensione dei cambiamenti globali e delle necessità locali, per esempio. Non bastano le riflessioni dell’Istat o della Banca d’Italia per far crescere le capacità di mobilitazione cognitiva, per usare un termine ora di moda, di questo paese. Servono centrali delle idee più forti e meglio organizzate.

Su cosa dovrebbero puntare?
Ripeto, a noi manca una classe dirigente, pubblica e privata, che abbia una visione sistemica. Se l’avessero, avrebbero da un pezzo finanziato il lavoro di ricerca e riflessione sulle macro politiche per il paese. E i politici si affiderebbero alla ricerca sociale e non solo ai sondaggi, per capire il paese. Le cose cambieranno quando tutto il paese crescerà in capacità di riflessione e ragionamento. Ciò sarà possibile quando saranno costituite le arene e i luoghi di dibattito dove farlo. Serve che crescano le fucine delle idee e della formazione. Ma serve anche che la politica investa nel capitale umano del paese, per porre rimedio alla sua inefficienza e impreparazione.

Twitter: @enricoferrara1

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