“Obama arma i ribelli siriani gli uni contro gli altri”

La fine del conflitto si allontana

Attorno al conflitto siriano orbitano gli interessi e le strategie di molte potenze, regionali e mondiali. Russia, Iran, Israele, Stati Uniti, Qatar, Arabia Saudita solo per citarne alcune. L’affollamento degli attori internazionali e la delicatezza della situazione fanno sì che il quadro si modifichi lentamente, mentre sul campo sono già più di 100mila i morti e quasi 2 milioni i rifugiati. E le ultime notizie che arrivano da Washington sembrano non lasciare spazio a improvvise accelerazioni.

Il 23 luglio il capo di Stato maggiore Usa Martin Dempsey ha presentato, in una lettera inviata al Congresso, le cinque possibili azioniche il Pentagono potrebbe mettere in atto in Siria:

  • l’invio di armi e l’addestramento dei ribelli,
  • blitz mirati su obiettivi specifici,
  • l’imposizione di una “no fly zone”,
  • l’imposizione di una zona cuscinetto al confine,
  • la distruzione mirata dell’arsenale di armi chimiche del regime di Damasco.

Tutte queste azioni, eccetto la prima, avrebbero dei costi elevati (diversi miliardi di dollari) e, secondo quanto dichiarato dallo stesso Dempsey, «sarebbe difficile evitare poi un maggior coinvolgimento», anche considerati i tempi lunghi che si prevedono per la soluzione del conflitto. Di qui la posizione “tiepida” dell’amministrazione Obama circa un coinvolgimento diretto e invasivo da parte degli Stati Uniti.

Accanto a questa notizia è poi arrivata quella del via libera dato dal Congresso all’invio di armi ai ribelli siriani. Si parla di armi leggere, al massimo qualche sistema anti-carro. In base alle indiscrezioni i primi carichi dovrebbero arrivare già nei primi giorni di agosto. Ma il loro scopo potrebbe non essere solo quello di essere impiegate contro il regime di Assad, anzi.

«Il Presidente Obama – spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici Niccolò Machiavelli – non ha alcuna priorità nel farsi coinvolgere militarmente in un’altra guerra in Medio Oriente. E, come sottolineato anche da fonti militari americane, qualsiasi azione delle cinque elencate da Dempsey (eccetto il semplice invio di armi e addestratori) porterebbe ad un effettivo coinvolgimento degli Usa. Ad esempio, anche solo per imporre una “no fly zone” l’amministrazione americana dovrebbe impiegare miliardi di dollari e dispiegare un’ingente quantità di mezzi e uomini. La mia impressione è che Obama questo non lo voglia».

È solo una questione di soldi?
Ovviamente no. Il problema maggiore, ipotizzando di abbattere la dittatura di Assad, è il “dopo”. La Siria è una faglia di una moltitudine di interessi geopolitici. L’Iran, Israele, la Russia, le cellule legate al fondamentalismo islamico, Hezbollah, gli Americani, i Paesi del Golfo: la caduta del regime aprirebbe scenari imprevedibili per tutti questi attori. La mia impressione è che, alla fine, gli Stati Uniti non vogliano la cacciata di Assad. Ora come ora sarebbe troppo rischioso.

Allora perché armare i ribelli?
L’amministrazione Obama non ha una linea strategica chiara e definita per quanto riguarda la Siria nel complesso. Un obiettivo è però certo: evitare che i gruppi legati alla Jihad islamica possano armarsi e creare proprie roccaforti nel Paese. L’invio di armi da parte degli Usa secondo me è da leggere più in prospettiva di uno scontro (più o meno latente) tra diverse componenti della ribellione che non in funzione anti-Assad. Si vuole armare il Free Syrian Army, in particolare, nell’ottica di una resa dei conti con le componenti estremiste, come ad esempio Al Nousra.

Cosa glielo fa dire?
Una serie di considerazioni, a cominciare dal la tempistica. Stante che più passa il tempo più diventa difficile abbattere il regime, la relativa calma con cui gli Usa stanno inviando le armi lascia intendere che le priorità siano altre: avere solo una parte del fronte ribelle, quella non pregiudizialmente ostile, addestrata e armata e quindi impedire che le armi cadano nelle mani “sbagliate”. Poi va considerato il tipo di armamenti inviati. Per sconfiggere un esercito dotato di armi pesanti come quello siriano – foraggiato oltretutto dalla Russia – servirebbero mezzi adeguati anche ai ribelli. Inviare armi leggere non sarebbe una mossa adeguata all’obiettivo perseguito, se questo fosse quello della caduta del regime. Infine l’impressione, già riportata dalla stampa internazionale, che agli Stati Uniti (e anche a Israele) non dispiaccia “lasciar bruciare la Siria” non mi sembra infondata.

In che senso?
In Siria stanno trovando sfogo una serie di tensioni potenzialmente pericolose per gli interessi occidentali. L’Iran è direttamente coinvolto militarmente sul campo e nei tempi lunghi l’impegno può essere oneroso, considerato che oramai non può più chiamarsene fuori, oltre che fonte di distrazione da altri obiettivi strategici. Stesso discorso per Hezbollah. Le cellule legate alla rete del terrorismo islamico sunnita sono convogliate in Siria. Gli attori regionali che adesso interferiscono nella questione siriana potrebbero – se lì la situazione venisse risolta – dirottare su altri Paesi le proprie attenzioni, in particolare sull’Egitto. E, vista anche l’attuale situazione di instabilità che c’è al Cairo, è preferibile che questo non accada. Un Egitto trascinato in una condizione “siriana” sarebbe molto più pericoloso.

Una delle voci che girano è che gli Stati Uniti potrebbero accettare di lasciare una parte del Paese sotto il controllo della dittatura, almeno nel breve termine, e un’altra in mano ai ribelli.
Mi sembra poco probabile. Il regime di Assad è dotato di armi pesanti, è in grado di radere al suolo un’intera città in poche ore. Per impedirgli improvvise offensive nel territorio che fosse eventualmente lasciato ai ribelli servirebbe, ancora una volta, l’imposizione di una “no fly zone” o di una zona cuscinetto. Quindi sarebbe necessario quel coinvolgimento americano che Obama sembra voler evitare. 

Twitter: @TommasoCanetta 

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