Per salvare questo governo si dovranno ridurre l’Imu e evitare l’aumento dell’Iva e tuttavia la direzione di marcia giusta è quella di ridurre Irap e Irpef.
Mentre l’anno scorso abbiamo passato gran parte del nostro tempo discutendo di regole sul mercato del lavoro, ad esempio l’articolo 18 e la flessibilità in entrata, oggi si fa strada la consapevolezza che la disoccupazione non si risolve solo sul mercato del lavoro e serve una ricetta per la competitività e una per l’equità.
Che ruolo hanno le quattro grandi imposte italiane Imu, Iva, Irpef, Irap per promuovere competitività e equità? Per la competitività la ricetta è la “deflazione fiscale” ovvero meno Irap e più Iva: una riduzione del costo del lavoro Irap tendenzialmente finanziata con l’Iva. Al di là della necessità tutta elettorale di concentrarsi sull’Iva invece che sull’Irap, c’è un dibattito se la riduzione del costo del lavoro sia in effetti una priorità. Chi sostiene che il cuneo fiscale non sia una priorità, tra cui la Cgil ma anche Yoram Gutgeld il guru economico di Renzi, si avvale di due argomenti: che la riduzione del cuneo fiscale del passato governo Prodi di 8 miliardi di euro non abbia creato apparentemente molti posti di lavoro e inoltre che la manifattura italiana e la piccola impresa non abbiano il costo del lavoro ai primi posti delle loro preoccupazioni. Dall’altra parte Confindustria e per esempio Alesina e Giavazzi sostengono che si debba abbattere il cuneo fiscale di ben 50 miliardi di contributi sociali per allinearsi agli altri paesi europei.
La verità probabilmente sta nel mezzo, e gli sforzi vanno concentrati non tanto sulla riduzione tout court del cuneo quanto sulla riduzione dei contributi per le sole nuove assunzioni. È indubbio che il nostro costo del lavoro per unità di prodotto sia di molto aumentato rispetto alla Germania ma anche rispetto alla Francia. Anche i nostri salari nominali sono aumentati di molto rispetto a quelli tedeschi in quanto indicizzati ad un’inflazione italiana di 1-2% superiore all’anno, ma se non si vuole e non si può agire sui salari medi per non penalizzare il potere d’acquisto, bisogna appunto agire sui contributi per ridurre il costo del lavoro. E poi bisogna agire non sui salari medi ma sui salari a livello di impresa: imprese con produttività diversa devono poter pagare salari diversi. La ricetta tedesca alla competitività è stata ottenuta attraverso una massiccia uscita delle imprese dai contratti collettivi settoriali e con grande varianza dei salari a livello di impresa: all’aumento sostanziale della disuguaglianza dei salari pre-tasse è seguito un programma di reddito minimo molto generoso per ottenere maggiore equità post-tasse.
In Italia la deflazione fiscale si può fare solo con accordo sindacale di moderazione salariale che non recuperi con aumenti salariali le riduzioni di Irap. Più ancora di moderazione dei salari medi è ora di parlare non più di medie ma di varianze cioè di accordi salariali aziendali e anche di radicali deroghe a contratti nazionali. Con la legge sulla rappresentanza e un sindacato illuminato si può e si deve gestire una stagione in cui aziende diverse pagano salari diversi.
Il secondo punto centrale del dibattito riguarda l’equità e la necessità di aumentare il potere d’acquisto delle famiglie povere. A riguardo ci sono due proposte in campo. La prima privilegia la via radicale delle riforme: per esempio una patrimoniale (straordinaria o ordinaria) che paghi un reddito minimo garantito generoso sull’esempio tedesco. La seconda privilegia una via più graduale: mantenere una sostanziale tassazione del patrimonio con l’Imu e ridurre il carico Irpef per i redditi bassi, magari aggiungendo sussidi agli incapienti Irpef. Al di là delle differenze tra queste due opzioni su chi paga e chi ne beneficia, io preferisco la seconda strada più graduale per una ragione molto semplice: capisco le ragioni della politica che deve promettere nuovi orizzonti di grandi riforme, ma in Italia manca soprattutto l’implementazione graduale delle riforme che già abbiamo. Se il vero problema dell’Italia è la mancanza di classe dirigente, io sono convinto che Spaventa, Ciampi, Andreatta e Padoa Schioppa si sarebbero oggi concentrati più su aggiustare le importanti riforme delle pensioni e del lavoro e sull’impedire nei modi possibili la chiusura di tante imprese, piuttosto che nel promettere oggi nuove riforme radicali.