Robert Mugabe, l’eterno padrone dello Zimbabwe

Il Paese africano al voto

Già nel 2008 i suoi oppositori lo chiamavano “Il Vecchio”, per sottolineare che il suo tempo, dopo 28 anni al potere, era scaduto. E invece il Vecchio aveva resistito, facendo appello alle milizie, alla struttura del suo partito, la Zanu-Pf, e soprattutto allo “Stato profondo”, la polizia e i servizi segreti, saldamente nelle sue mani. I brogli per impedire una sconfitta al primo turno, la rinuncia al ballottaggio del suo avversario: così si era conquistato un altro mandato Robert Mugabe, padre padrone dello Zimbabwe dal 1980, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Un ulteriore lustro presidenziale per chi aveva fatto carta straccia dei diritti umani ed aveva trascinato il Paese nel marasma economico più totale, con un’inflazione del 250.000.000 per cento, roba da Repubblica di Weimar.

Oggi l’ottantanovenne Mugabe ci riprova e si candida nuovamente alla presidenza. Uno dei leader più longevi del pianeta – 33 anni è un lasso di tempo che fa impallidire persino i despoti delle repubbliche centrasiatiche – il paria della comunità internazionale, escluso dalle riunioni del Commonwealth e dichiarato “persona non grata” da Stati Uniti ed Unione europea, lancia l’ennesima sfida dopo una modifica costituzionale, confermata a marzo da un referendum, e un governo di coalizione con il suo eterno rivale, Morgan Tvsangirai.

Robert Gabriel Mugabe (21 febbraio 1924), al centro, con la figlia Grace (Alexander Joe/Afp)

Mugabe è colui che l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984, ha definito l’archetipo del dittatore africano. Imprigionato dagli inglesi, quando il Paese era ancora noto come Rhodesia britannica, cominciò a farsi conoscere durante la guerriglia anti-coloniale degli anni Settanta. La sua nomea di eroe dell’indipendenza, in nome dei diritti dei neri, lo accompagnò nei primi anni di potere. Poi la retorica della duplice battaglia, contro il colonialismo e il capitalismo, divenne solo la giustificazione di un potere corrotto e dispotico. L’unico suo successo fu la diffusione dell’educazione – in gioventù Mugabe era stato un insegnante – tanto che ancora oggi il tasso di alfabetizzazione del Paese è il più alto di tutto il continente.

Lo Zimbabwe, ricco di risorse minerarie, conobbe un boom economico nei primi anni dall’indipendenza. I suoi critici sostengono che il successivo declino fu la conseguenza della politica ideologica del padre-padrone, che confiscò le fattorie di proprietà di bianchi per consegnarle ai suoi sostenitori politici, uomini di colore spesso privi di esperienza in ambito agricolo. In fondo, sottolineano molti, Mugabe è il classico personaggio che ha sempre pensato a come dividere la torta, mai a come allargarla.

Dopo le elezioni del 2008, le pressioni internazionali lo costrinsero ad accettare come primo ministro Tvsangirai. Una convivenza indigesta ad entrambi, perché l’uno non intendeva condividere il potere, l’altro riteneva, a ragione, di essere stato scippato della vittoria.

Il governo di coalizione ha preso misure che hanno stabilizzato l’economia, la quale ha cominciato a crescere a un tasso del cinque per cento annuo, e l’iperinflazione si è fermata,in gran parte grazie della decisione di consentire la circolazione del dollaro americano e del rand sudafricano, al posto della svalutata moneta zimbabwese.

D’altro canto, la dollarizzazione ha avuto l’effetto di rendere più difficili le esportazioni. Nel 2012 la crescita è calata al quattro per cento e le previsioni per l’anno in corso si attestano intorno al tre per cento. Secondo Tony Hawkins, professore di business all’Università dello Zimbabwe, i redditi reali dei zimbabwesi sono più bassi rispetto all’era coloniale, per non parlare dei primi anni dell’indipendenza.

Come in ogni Paese dominato da un solo personaggio e dal suo clan, la corruzione è moneta corrente, soprattutto in un settore chiave per l’export, quello dei diamanti. Nel novembre scorso, ad esempio, la ngo Partnership Africa Canada ha parlato delle sottrazione di minerali, per un totale di due miliardi di dollari, dalle miniere di Marange, a beneficio di funzionari statali, trafficanti e intermediari.

Malgrado l’isolamento internazionale, rotto solo da rari episodi, che procurarono non poche polemiche – tutti a Roma, peraltro, la riunione Fao del 2009, la beatificazione di Giovanni Paolo II e, recentemente, la messa di inaugurazione del pontificato di Papa Francesco – e la sistematica violazione dei diritti umani, Mugabe è ancora in sella e continua a proclamare la sua volontà di “indigenizzare” ulteriormente l’economia, sulla scia di una legge del 2010 che obbliga le compagnie straniere a vendere quote di maggioranza ad esponenti locali.

Le elezioni di questo 31 luglio – i candidati sono cinque e si vota anche per rinnovare il Parlamento – sembrano essere l’ultima occasione per Tsvangirai, da tempo l’unica credibile alternativa al despota. La fondazione del Movimento per il Cambiamento Democratico, nel 1999, ha consentito di coagulare i consensi dell’opposizione, che nel 2008 è arrivata un passo dal successo.

La coabitazione forzata ha appannato l’immagine del «Walesa di Harare» presso i suoi stessi sostenitori, e la sua popolarità è in calo, anche per questioni private (vedi alla voce poligamia), ma Tsvangirai resta l’uomo che può porre fine al regno trentennale di Mugabe. Se le elezioni fossero state completamente regolari, nel 2002, nel 2005 e soprattutto nel 2008, l’ex leader sindacale avrebbe probabilmente scalzato il tiranno. Minacce, violenze, persino la morte della prima moglie, in un incidente sospetto, non hanno mai fermato l’attività politica di un personaggio che gode ancora di larghi consensi, soprattutto nelle città.
Tvsangirai non può vantare la partecipazione alla guerra di liberazione dal dominio inglese, ma si è costruito una seria credibilità in anni di ferma opposizione, galera compresa. Il suo programma piace molto alla comunità internazionale: respinge una politica economica fatta di espropri, promette di ripulire il Paese dalla corruzione, di promuovere la trasparenza e di sviluppare l’industria, attraendo investimenti stranieri.

L’imprimatur definitivo dell’Occidente è arrivato da una lettera pubblicata, a due giorni dal voto, sul Washington Post. Tvsangirai ha denunciato i molteplici tentativi di Mugabe di condizionare il risultato, attraverso le commissioni e gli elenchi elettorali (dove compaiono persino morti ed espatriati, un milione in totale). Ha ribadito di volere comunque partecipare a una partita truccata, perché l’alternativa non farebbe altro che prolungare la tirannia. E si è detto convinto di poter finalmente consegnare il despota alla storia.

Mugabe ha promesso di tornare a vita privata, in caso di sconfitta, ma confida sul rigido controllo dei media – giornali, televisione e soprattutto radio, mentre la rete è poco diffusa – e sull’occhio assente degli osservatori internazionali – dove mancano gli occidentali – per non mollare la presa. Il despota ha già smentito varie profezie sulla sua morte politica. Chissà se la sua capacità di resilienza supererà anche questa prova.

Twitter: @vannuccidavide

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