L’agente MormoraSentenza di Pomigliano: la Fiom festeggia. E adesso?

Fiat, la Consulta e ruolo del sindacato

La pronuncia della Consulta del 3 luglio apre uno dei capitoli più interessanti della storia delle relazioni industriali italiane. Se non avessimo abusato in passato dell’aggettivo, potremmo definirla “storica” per due ragioni fondamentali: da un lato, perché l’impianto che finora ha retto i diritti di cittadinanza delle sigle sindacali all’interno dell’azienda, dal 1995 a oggi, è completamente messo in crisi; dall’altro perché getta discredito sul nostro Parlamento che, complice un’inerzia imbarazzante, si fa ora dettare l’agenda dai giudici delle leggi e, giocoforza, anche dal sindacato che esce rafforzato da questo giudizio e che in questi anni si è battuto contro la prepotenza del “dialogo con chi ci sta”.

Attenzione però a buttarla in caciara, sprofondando nelle sabbie mobili della querelle sindacati – Fiat, col corredo retorico della lotta di classe. Festeggiano i leader Fiom, che da sempre hanno scommesso sulla controversia giudiziale al fine di sanare un’anomalia inaugurata dalle scelte – coraggiose o padronali, a seconda dei punti di vista – dell’amministratore delegato Fiat, Sergio Marchionne. La politica si divide e non ne esce per niente bene: pavida ed ideologica, è arrivata in ritardo all’appuntamento con le proprie responsabilità (anche la presidente della Camera Laura Boldrini aveva twittato qualcosa nel pomeriggio circa l’impegno di accelerare i tempi parlamentari dei disegni di legge in tema di rappresentanza in fabbrica, ma si è affrettata a rimuoverlo per chissà quale ragione). Il dibattito sull’agibilità della Federazione Impiegati e Operai Metalmeccanici, all’indomani dei referendum aziendali e della fuoriuscita di Fiat da Confindustria (e quindi dal sistema contrattuale previgente), si è comunque imposto con una certa prepotenza. In questi casi, chi aggrotta la fronte in segno di sapienza di solito chiosa: «Intanto attendiamo di leggere le motivazioni». Qualcosa, tuttavia, può essere detta sin d’ora. 



Cosa ha detto la Corte Costituzionale? La Consulta, quanto alla questione di legittimità sollevata dai giudici delle corti di Torino, Modena, Vercelli, nella camera di consiglio odierna,

«ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.19, 1 c. lett. b) della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cosiddetto “Statuto dei lavoratori”) nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda».

La pronuncia dei giudici delle leggi, tra gli addetti ai lavori, è parsa sorprendente – specie in questo clima di ritrovata pax sindacale, poiché smentisce orientamenti precedenti e – a rigor di logica – sconfessa l’approccio benevolo della Corte nei confronti della normativa “di risulta” (vale a dire: quello che è venuto fuori) dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, dopo uno dei referendum del 1995, l’altro era promosso all’epoca dal Partito della Rifondazione Comunista e dai Comitati di Base. L’articolo dello Statuto, a detta del sindacato rosso e della Corte, contrasterebbe con i principi costituzionali espressi dagli art. 2, 3 e 39 della Carta (solidarietà nelle formazioni sociali, uguaglianza formale e sostanziale, libertà sindacale). 



Cosa dice l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori. La norma di cui si discute assegna i benefici del titolo III della legge 300 del 1970 (es. bacheche di comunicazione, locali dedicati, assemblee dei lavoratori, permessi retribuiti ai delegati) alle sole sigle che siano «firmatarie dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». Quindi non alla Fiom, che non ha sottoscritto alcunché con la controparte datoriale rappresentata dalle società del gruppo torinese. Il testo, prima del 1995, conteneva un rigo in più e ammetteva a godere degli stessi diritti anche «le confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale»: due erano le battaglie – una volta a liberare la rappresentanza dei lavoratori dal monopolio della Triplice (Cgil, Cisl, Uil) – ma prevalse la formula morbida promossa dai confederali, oggi contestata. Il risultato, tuttavia, aveva in sé il germe del paradosso: si arrivava a limitare i benefici sindacali ai soli firmatari dell’accordo decentrato.

Il risultato, tuttavia, aveva in sé il germe del paradosso: pur di liberarsi dall’egemonia dei confederali, si arrivava a limitare i benefici sindacali ai soli firmatari dell’accordo decentrato. In virtù di tutto ciò, Fiat non ha riconosciuto come valide le nomine dei dirigenti della r.s.a (il sindacato in azienda) di Fiom-Cgil presso le unità produttive sparse per lo Stivale né ha concesso ai delegati i privilegi della legislazione di sostegno – qualcuno ricorderà le scene drammatiche dei sindacalisti che abbandonano i luoghi di lavoro, scatoloni alla mano, e piazzano le tende al di qua dei cancelli.

Com’era interpretato l’art. 19 e le questioni giuridiche aperte. Finora dottrina e giurisprudenza hanno oscillato tra due posizioni: prevalenza della lettera del testo o interpretazione estensiva? Ci si è chiesti come comportarsi con Fiom, il cui consenso tra le tute blu dei metalmeccanici è considerevole ma, dal momento che si è rifiutata di sottoscrivere il contratto collettivo specifico di lavoro, subisce l’inospitalità politica della casa automobilistica torinese. Le falle del sistema sono evidenti ed infatti, accademicamente, ci si interroga pure della ipotetica “rendita di posizione” di un sindacato che perda il sostegno politico dei lavoratori in forza all’unità produttiva ma continui ad accedere ai diritti dell’attività sindacale per il solo fatto di aver sottoscritto. Come pure, in via teorica, si ipotizza che alcune organizzazioni siano indotte alla firma dal timore di perdere suddette concessioni. In sintesi, il rischio è che ci sia un premio per chi solidarizza e un benservito per chi antagonizza col “padrone”. Peraltro la stessa corte che si è pronunciata sull’incostituzionalità della norma aveva in passato ammesso le disparità di trattamento fondate sui criteri selettivi contenuti nello Statuto dei Lavoratori, poi manipolato dall’intervento referendario. 



Com’è cominciato tutto. Nel lontano 2011 Marchionne gioca una partita importante, tra due continenti: molte copertine si occupano delle strategie “innovative/reazionarie” del manager italocanadese. Lo stabilimento Gian Battista Vico di Pomigliano d’Arco diventa, in fretta e suo malgrado, il centro del mondo. Fiat pretende una deroga al contratto nazionale in vigore, sui temi del turno di lavoro e dell’esercizio del diritto di sciopero (la famosa clausola della “tregua”). Sul piatto ci sono 700 milioni di investimento: più Panda per tutti, si era detto, è l’asso nella manica del Lingotto. I sindacati sono spaccati anche al proprio interno, Fiom, in particolare, si trova stretta tra il movimentismo dei Cobas, già radicati in fabbrica, e la posizione istituzionale e dialogante assunta dall’allora segretario confederale Guglielmo Epifani (oggi a capo del partito azionista di maggioranza di governo). Gli esiti del referendum aziendale ingarbugliano la matassa dal momento che i “sì”, com’è prevedibile, prevalgono, ma in misura del 62 per cento – non certo il successone che Marchionne si aspettava e incoraggiava con dichiarazioni dal tono cortesemente minaccioso. Sul fronte opposto, Fiom aveva raccolto un consenso elettorale sui “no” all’accordo superiore al numero dei propri tesserati. In sindacalese, si diceva che “la governabilità delle fabbriche non è garantita”. 



La “defiomizzazione” della Fiat, prima della svolta. Ci sarebbe pure da render conto della trovata della NewCo, la nuova entità svincolata dalle pattuizioni dell’accordo interconfederale del 1993 che “teneva dentro” la Fiom. Com’è noto, l’accordo per la produttività promosso dalla fabbrica torinese era stato sottoscritto da tutte le sigle sindacali ad eccezione dell’organizzazione di Landini che si trova a non esprimere rappresentanti nello stabilimento automobilistico campano. Per lungo tempo si è ventilato uno scambio che assumeva queste sembianze: la Fiom rinunci a fare opposizione agli accordi approvati dalla maggioranza dei lavoratori e la Fiat si scordi di pretendere la firma dell’accordo come criterio per individuare la rappresentanza dei delegati Fiom. Il sacrificio per il sindacato è duplice: potrebbe perder visibilità tra le tute blu e non incassa la quota mensile trattenuta in busta paga agli iscritti (1 milione di euro circa, secondo le stime del giornalista Paolo Griseri).

Si è volutamente trascurato di insistere sulle contiguità e le ambiguità dei cartelli politici – di destra e sinistra, ma anche di quelli dei tecnici – che, pur di coccolare il proprio elettorato, hanno rinunciato a legiferare ed, anzi, hanno creduto che quella davanti ai cancelli degli stabilimenti Fiat fosse solo una schermaglia da poco e sono rimasti a guardare. Come nelle migliori pellicole, evidentemente, questa storia non finisce qui.


Twitter: @agenteMormora

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