S&P boccia ancora una volta l’Italia

La lunga crisi italiana

Un’altra tegola si abbatte sull’Italia. Standard & Poor’s ha tagliato il rating sovrano di lungo termine del Paese di una nota, portandolo da BBB+ a BBB, due gradini sopra il livello “speculative grade”, ovvero con un rischio d’insolvenza significativo. L’outlook resta negativo, un aspetto che lascia intendere che sono previsti altri downgrade nei prossimi mesi. Pesano tre fattori su tutti: la precaria situazione politica del Paese, la recessione peggiore delle aspettative e il rischio che le riforme strutturali che servono all’Italia siano stoppate dalla debolezza del governo.

Il taglio di S&P era nell’aria da mesi. Del resto, già a fine febbraio la stessa agenzia di rating aveva spiegato, proprio a margine della tornata elettorale, che il voto inconcludente avrebbe avuto un risvolto sul giudizio del Paese. La prospettiva di non avere un esecutivo stabile, con le tre principali forze politiche divise solo da pochi punti percentuali, è infatti uno dei motivi cardine che hanno portato a questa scelta. Nonostante gli sforzi, non ci sono ancora state le sperate misure di stimolo per l’anemica economia del Paese. E sul fronte della riduzione del debito, non sono ancora state prese iniziative degne di nota. Allo stesso modo, il credit crunch bancario è destinato a continuare anche nel 2014.

La costante pressione sul governo di Enrico Letta incide sul futuro del Paese. La crisi occupazionale, unita a una recessione più lunga delle previsioni e un’incerta percezione del futuro economico italiano sono ostacoli forse troppo ostici da superare con un esecutivo appeso a una larga coalizione composta da Pd, Pdl e Scelta civica. Inoltre, come fa notare l’agenzia di rating, non sembra esserci una direzione nella politica economica del Paese, che dopo la blanda austerity di Mario Monti, si è ritrovato con un sistema produttivo e industriale in forte carenza di liquidità e con pochi margini di ripresa.

A pesare sulla decisione di S&P è stata anche la congiuntura economica. Il deficit, contrariamente alle previsioni iniziali, potrebbe sfiorare la quota del 3% fissata dal Fiscal compact, che ha sostituito il trattato di Maastricht lo scorso anno. Il tutto nonostante l’uscita del Paese dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo aperta dall’Ue nel 2009. Inoltre, il debito pubblico è destinato ad aumentare ancora nell’anno in corso. I 2.000 miliardi di euro che sono il maggiore fardello dell’Italia cresceranno e il rapporto fra debito e Pil arriverà in prossimità del 130 per cento durante l’anno in corso. Con una recessione che trascinerà al ribasso il Pil di oltre un punto percentuale (1,8% secondo il Fondo monetario internazionale e Morgan Stanley) secondo le ultime stime della Commissione Ue, è difficile che ci sia un miglioramento in assenza di un governo stabile e capace di continuare il percorso iniziato fra 2011 e 2012. E poco importa se l’attuale esecutivo abbia previsto che non ci sarà un deragliamento dell’economia nel prossimo anno. 

Nessuno stupore per il downgrade, quindi. Già un’altra agenzia di rating aveva acceso i riflettori sull’Italia. Nel Credit outlook report uscito lo scorso 4 marzo, Moody’s aveva messo in guardia il Paese. Gli analisti Dietmar Hornung e Andrew Schneider non hanno usato mezzi termini. «Potremmo considerare un downgrade del rating sul debito italiano nel caso ci sia un ulteriore deterioramento materiale nelle prospettive economiche del Paese o altre difficoltà nell’implementazione delle riforme», disse Moody’s. Non solo. «Anche un deterioramento delle condizioni di finanziamento potrebbero essere un elemento di pressione capace di impattare sul rating italiano», scrissero Hornung e Schneider. In altre parole, il mix letale di pressione sul mercato obbligazionario, unito all’instabilità politica derivante dal voto inconcludente, avrebbe impattato sul rating del Paese. Le riforme sono quelle note da anni, cioè misure volte a migliorare il mercato del lavoro, la competitività dell’Italia e la produttività del Paese.

Ciò che sarà dell’Italia sui mercati finanziari lo si capirà solo da domattina, quando riapriranno le Borse. La certezza è che, come ha spiegato anche HSBC, dopo una primavera con Cipro e Grecia al centro dell’attenzione degli investitori, c’è la percezione che sia proprio Roma a essere il nuovo epicentro di una crisi che non sembra avere una fine. «La domanda che si fanno gli operatori è una: riuscirà l’Italia a venire fuori dalla recessione e introdurre le riforme che ha messo in cantiere?», scrive la banca anglo-asiatica.

La risposta degli investitori potrebbe essere meno violenta del previsto. Che S&P potesse tagliare il rating italiano era previsto. Tuttavia, la scelta dell’agenzia di rating statunitense avrà un impatto sui portafogli di banche e fondi d’investimento. Con ogni abbassamento del rating di un Paese, o di un emittente in generale, avviene una fisiologica riallocazione del portafoglio. Traduzione: i titoli di Stato italiani saranno venduti, o sarà comprata protezione tramite i Credit default swap (Cds), i derivati che proteggono dall’insolvenza di un emittente. Le maturity più colpite potrebbero essere quelle superiori ai tre anni, ovvero quelle non coperte dall’ombrello (per ora solo virtuale) delle Outright monetary transaction della Banca centrale europea. Per tutto il resto, c’è la (precaria) politica italiana.  

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