Acquista l’ebook “Tutta un’altra notizia. Spunti e strumenti per il giornalismo del domani”(goWare) a 2,99 euro
4. Condividi e comanda. L’affermazione del giornalismo social-oriented
Tra Gutenberg e Zuckerberg ci sono sei secoli e quattro lettere di differenza. Per Charlie Beckett, autore del libro Supermedia e coordinatore del Media and Communications Department presso la London School of Economics, ad accomunarli c’è però qualcosa in più di un’assonanza: “I Social Media sono la rivoluzione più grande dall’invenzione della stampa. Una rivoluzione che ha trasformato il giornalismo da un’industria manifatturiera a un settore terziario”, ha spiegato il 25 marzo 2013. Il concetto era stato espresso, con altrettanta chiarezza, anche da Jeff Jarvis, giornalista inglese e professore alla scuola di giornalismo di New York, nel suo ebook Gutenberg the Geek (2012,): secondo Jarvis, l’inventore della stampa fu “il primo imprenditore tecnologico della storia” e fu in grado di “raggiungere la grandezza attraverso tentativi, errori, visione e determinazione”. Un po’ come ha fatto Steve Jobs nell’era moderna, aggiunge Jarvis, che come Zuckerberg ha contruibuito, forse senza volerlo, a cambiare il modo in cui facciamo e fruiamo il giornalismo.
La quarta “S” del giornalismo moderno
Facebook compirà un decennio nel 2014. In così poco tempo, è riuscito ad attrarre oltre un miliardo di utenti, contribuendo a portare cambiamenti radicali in diversi settori del web e della nostra vita: dall’interazione interpersonale alla comunicazione individuale, dalle strategie aziendali al modo in cui coltiviamo – direttamente o indirettamente – i nostri interessi. Il giornalismo, per sua stessa natura incline al cambiamento, non è rimasto immune alle novità. La rivoluzione di cui parla Beckett è avvenuta davvero, al punto da far sembrare tutti i libri sul giornalismo pubblicati pochi anni fa testimonianze di un’epoca lontana, tomi impolverati rimasti chiusi per decenni in una soffitta. Alle tre “S” canoniche del giornalismo da tabloid – sesso, sangue, soldi, “gli argomenti necessari perché una storia funzioni” – se ne è aggiunta una quarta: social.
[…]
Una tendenza nata in America e diffusasi, in breve tempo, anche al resto del mondo. Pur avendo influito su molti aspetti del giornalismo, la “rivoluzione social” può essere analizzata sotto due lenti d’ingrandimento principali, due tendenze contemporanee e complementari. Da un lato, i social sono diventati terreno fertile per la diffusione del contenuto giornalistico, diventando per moltissimi utenti le edicole del presente, i primi (e talvolta unici) luoghi di scoperta delle news. Dall’altro, hanno contribuito a creare un nuovo modo di fare giornalismo, basato sull’immediatezza e sul crowdsourcing, abbattendo definitivamente la barriera che, nei secoli precedenti, assegnava al lettore e al giornalista due ruoli completamente diversi: oggi, grazie a Facebook e Twitter, fruitori e creatori dell’informazione coincidono. Cominciamo da qui.
Go with the flow
Cosa sarebbe successo se, l’11 settembre del 2001, Facebook e Twitter fossero già esistiti? Probabilmente, avremmo avuto molte più informazioni su come sono andate realmente le cose nei cieli americani prima e negli uffici di metallo delle Twin Towers poi. Un flusso incessante di tweet pubblici avrebbe raccontato secondo dopo secondo quei terribili attimi, mentre i dipendenti intrappolati nelle torri, con i loro smartphone connessi ad internet, avrebbero caricato decine e decine di video sui loro profili Facebook. Non ci sarebbe stato bisogno di scandagliare le caselle e-mail e le segreterie telefoniche dei cellulari per ricostruire l’accaduto. Una quantità mostruosa d’informazioni sarebbe arrivata spontaneamente sui monitor dei giornalisti impegnati a seguire l’evento, creando in tempo reale un racconto dell’attacco aereo, dell’esplosione, dell’intervento dei soccorsi, della disperazione e della sofferenza delle vittime e dei loro familiari.
“In case of fire exit building before tweeting about it” non è soltanto un avvertimento ironico. Nasconde un fondo di verità. Lo dimostrano episodi come la Primavera araba. La maggior parte delle informazioni sulle rivoluzioni che scossero Tunisia, Egitto e Siria nel 2011 arrivate nelle newsroom occidentali provenivano proprio dai social network, e da Twitter in particolare [Video 2 – Come Twitter cambia il modo di diffusione delle news. Andrew Smith della Stanford University]. Uno strumento comodo, pratico e soprattutto libero, al di fuori del controllo governativo che, mentre permetteva ai manifestanti di raccontare in tempo reale il rovesciamento popolare dei regimi nordafricani, veniva utilizzato dagli organizzatori per avviare e coordinare le sommosse stesse. Per la prima volta in un contesto così ampio, la liturgia classica dell’informazione si interruppe: i tweet anticiparono le agenzie, acquisendo istantaneamente il valore di breaking news e diventando la prima fonte d’informazioni per tutto il resto del mondo.
Qualcosa di simile è successo, seppur in scala minore, in Italia nel dicembre del 2011. Mentre il presidente del Consiglio di allora Mario Monti, insieme ai ministri Dino Piero Giarda (Rapporti con il Parlamento) e Corrado Passera (Sviluppo economico) illustravano alle amministrazioni locali i contenuti della manovra economica in fase di approvazione, in un incontro di carattere privato, il sindaco di Bari Michele Emiliano spifferava i contenuti della riforma – teoricamente segreti – ai suoi follower di Twitter. In venti tweet, Emiliano regalò ai giornalisti altrettanti titoli, scavalcando completamente le agenzie e rendendo immediatamente pubblici i punti cardine della manovra. Mentre i follower del sindaco pugliese triplicavano in poche ore (da 2000 a 6000), il monopolio informativo dei media veniva interrotto, costringendo il Governo ad intervenire tempestivamente con un comunicato stampa di smentita.
E che dire di quanto accaduto il 2 maggio del 2011, quando i Navy Seals statunitensi portavano a compimento un’operazione preparata da mesi nei minimi dettagli? Nel cielo di Abbottabad, la cittadina del Pakistan dove Osama Bin Laden si era rifugiato, gli elicotteri passavano raramente. Se ne accorse per primo Sohaib Athar, residente di Abbottabad, che all’una di notte raccontò in diretta dal suo account twitter @reallyvirtual quello che stava accadendo. “Helicopter hovering over Abbottabad at 1am (is a rare event)”: cominciava così una testimonianza divenuta storia del giornalismo nell’era social. Nelle ore successive, Athar – poi autodefinitosi “the guy who liveblogged the osama raid without knowing it” – divenne la fonte primaria per le televisioni e i giornali di tutto il mondo, centuplicò il numero dei suoi followers e venne contattato da decine di giornalisti per raccontare (in più di 140 caratteri) la sua testimonianza diretta.
Che cosa ci insegnano vicende come queste? Che i social network non sono più soltanto uno strumento di destinazione del contenuto, ma anche uno strumento in grado di generarlo. E di veicolarlo, attraverso la condivisione: grazie a queste piattaforme, gli individui si stanno trasformando da “fonti” e “destinatari” a “news sensor” in grado di recepire e creare l’importanza di una notizia contribuendo (o meno) alla sua diffusione. Il potere della ricerca in tempo reale è un grande strumento al servizio dei giornalisti, che oggi possono comprendere in pochi secondi l’impatto di una news sul lettore e scoprire le nuove tendenze a livello mondiale. Così la pensa anche Jeff Jarvis, tra i principali sostenitori dell’importanza di un utilizzo consapevole dei social network per raccogliere informazioni e per intercettare le notizie “calde”.
Un servizio “socialmente” utile: come Facebook è diventata la nostra edicola su misura
Il 23 febbraio 2011, un piccolo sito d’informazione locale del Maryland, il Rockville Central, annunciava una mossa rivoluzionaria: diceva addio al sito internet per spostare integralmente i propri contenuti sulla pagina Facebook. “La nostra pagina è diventata, ultimamente, il vero luogo di scambio e partecipazione con i nostri utenti. Ed oggi è la fonte principale di traffico per il sito insieme a Google”, recitava un editoriale firmato dall’editore Brad Rourke e dalla direttrice Cindy Cotte Griffiths.
Ci siamo dunque chiesti: perché avere un sito separato e cercare di allontanare le persone da Facebook? Perché non andare dove i lettori stanno? Visti gli eccellenti risultati della pagina del quotidiano, non abbiamo trovato nessuna ragione per mantenere in vita un sito separato. D’ora in poi, tutto sarà più semplice, il materiale sarà radunato e veicolato attraverso un unico strumento: il social network di Zuckerberg.
Soltanto otto mesi (e 1500 note pubblicate) dopo, il 14 ottobre 2011, il Rockville Central annunciava la sua chiusura. E lo faceva attraverso la stessa pagina Facebook che, in precedenza, aveva pensato lo potesse far decollare. Rourke e Griffiths, in una commossa lettera di ringraziamento, si affrettarono a difendere la loro scelta:
Valutiamo comunque la decisione di spostarci sul social network in maniera positiva. In questo periodo, i nostri utenti sono cresciuti del 500 per cento; siamo passati da 24mila pagine viste ogni mese sul sito web a 100mila visualizzazioni attraverso il social network. Smettiamo solo perché non abbiamo sufficienti energie per portare avanti il progetto.
Che sia vero oppure no, è una coincidenza strana che un giornale attivo da oltre quattro anni abbia cessato le pubblicazioni solo pochi mesi dopo aver annunciato, con grande entusiasmo, un cambio di rotta epocale.
L’episodio del Rockville Central, rimasto finora un unicum nella storia del giornalismo, è esemplificativo di come il rapporto tra giornalismo e social network si sia sviluppato negli ultimi anni. A ondate di grande entusiasmo si sono alternati periodi di riflessione, diventati – in qualche caso – veri e propri momenti di ripensamento. In ogni caso, una cosa è certa: per i giornali Facebook e Twitter rappresentano oggi una delle fonti di traffico più grandi e importanti. Nel 2012, secondo uno studio realizzato dal Pew Research Center, i social network hanno portato in media il 9 per cento del traffico totale dei quotidiani online. Ma ci sono molte differenze tra pubblicazione e pubblicazione: l’“Huffington Post”, di gran lunga il sito di maggior successo dell’era social, ha totalizzato su Facebook 2500 articoli con più di 100 condivisioni. Il doppio rispetto al suo concorrente più diretto, il Daily Mail.
Come mai i social network riescano a veicolare così bene il contenuto non è un mistero. Attraverso Facebook e Twitter gli articoli, i video, e i link in generale arrivano direttamente sulle bacheche degli utenti. Oggi sono le notizie ad arrivare ai lettori, non il contrario. Inoltre, i network hanno un grande potenziale nascosto: il meccanismo di social reccomendation secondo cui, se uno dei nostri contatti condivide un contenuto, siamo indirettamente invogliati a consultarlo, perché ci fidiamo dei loro gusti o ci incuriosisce scoprirne qualcosa in più. Secondo uno studio realizzato el 2011 dal professore Alfred Hermida, sui social le persone sono doppiamente inclini a cliccare su un contenuto pubblicato da un amico piuttosto che su uno pubblicato da un’organizzazione dell’informazione.
Un caso su cui riflettere: ascesa e declino dei social reader
Sembravano essere la salvezza del giornalismo in crisi, si sono rivelati una bolla pronta a scoppiare – i mutui subprime dell’editoria. Il caso dei social reader, che dopo una rapida ascesa hanno avuto un declino altrettanto celere, spiega molto di come la strada per la perfetta integrazione tra giornalismo e social network sia ancora lunga. Cominciamo dall’inizio, cioè dal frictionless sharing, un termine sfoggiato con orgoglio da Mark Zuckerberg nel 2011, durante la F8 Conference tenutasi a settembre. Il fondatore di Facebook, parlando della “condivisione senza attrito”, si riferiva soprattutto ai neonati social reader (sistemi di pubblicazione dei contenuti giornalistici interni alla piattaforma sociale), esperimenti simili a quello tentato pochi mesi prima in modo artigianale dallo sfortunato Rockville Central ma basati sulla tecnologia Open Graph, propria di Facebook.
Pioniere del social reading sono state due grandi testate, da sempre all’avanguardia nella sperimentazione di nuovi linguaggi di comunicazione: l’americano “Washington Post” e il britannico “Guardian”. Il “Post” ha aperto la strada nell’autunno del 2010, lanciando un’applicazione in grado di offrire “un’esperienza di lettura personalizzata sugli interessi del lettore e su quelli dei suoi amici virtuali”, come spiegava Donald Graham, presidente e CEO della Washington Post Company. Il funzionamento era estremamente semplice: accedendo al social reader (e accettando di concedere in cambio i propri dati personali), l’utente poteva leggere i contenuti del quotidiano direttamente su Facebook, senza essere reindirizzato ad un sito esterno. Nel momento in cui leggeva un determinato articolo, l’applicazione pubblicava l’azione sulla sua bacheca, rendendolo noto a tutti gli amici.
Dopo un inizio al rallentatore, il social reader del “Post” cominciò a viaggiare a ritmi sostenuti, attirando oltre diciassette milioni di utenti. La strada del quotidiano di Washington venne seguita a breve distanza dal “Guardian”, che lanciò la sua app il 23 settembre 2011. Sfruttando il sentiero già tracciato dal collega americano, il tabloid britannico riuscì a ottenere in poco tempo un successo straordinario: sei milioni di utenti, di cui tre arrivati nel giro di due mesi. L’incantesimo, però, era destinato a finire. Nell’aprile del 2012, qualcosa ha iniziato ad incepparsi, inaspettatamente. A maggio, sia il “Post” che il “Guardian” avevano perso tra il 60 e l’80 per cento dei propri lettori: un’emorragia rivelatasi impossibile da arginare.
Nel dicembre 2012, a distanza di pochi giorni, entrambi i quotidiani hanno deciso di chiudere i propri social reader su Facebook. Intraprendendo due percorsi diversi: il “Post” ha reso il proprio social reader indipendente dalla piattaforma di Zuckerberg, reindirizzando automaticamente gli utenti iscritti al servizio ad un sito esterno creato ex novo, socialreader.com. Il quotidiano londinese, invece, ha preferito far rientrare i propri lettori nel proprio “nido”, rispolverando il vecchio sistema che riportava direttamente l’utente al sito ufficiale del giornale. Dove è stato commesso lo sbaglio? Secondo l’analista Josh Sternberg, i fattori che hanno contribuito al prematuro declino dei social reader sono tre: un’user experience poco piacevole, un frictionless sharing fastidioso per la privacy, e una monetizzazione troppo difficile da ottenere.
Nel primo caso, la colpa è da addebitare in parte alle testate, in parte a Facebook. Il social network ha contribuito cambiando alcune delle impostazioni grafiche che rendevano le notizie dei readers così chiare e semplicemente identificabili. Allo stesso tempo, però, i contenuti veicolati attraverso le app dominavano lo stream degli utenti, “costretti” a visualizzare gli articoli del “Post” e del “Guardian” ai primi posti del feed. Un doppio colpo che ha rovinato definitivamente la user experience degli utenti. In secondo luogo, il frictionless sharing si è dimostrato troppo invadente per la privacy: volenti o nolenti, i lettori vedevano “spifferato” ai quattro venti l’articolo che stavano leggendo, anche se ci avevano cliccato per sbaglio o non l’avevano apprezzato affatto. Terzo, alle testate era impedito l’inserimento di pubblicità all’interno del social reader. In questo caso, ogni banner e inserzione era appannaggio di Facebook. Finché la visibilità offerta dal social network era elevata, “Guardian” e “Post” avevano chiuso volentieri un occhio; quando questa ha cominciato a scemare, l’impossibilità di monetizzare si è rivelata un problema veramente difficile da superare.
Facebook, tuttavia, sembra riporre ancora speranza negli aggregatori di notizie, nonostante la moria generale del prodotto (persino Google ha chiuso il suo Reader, tra le proteste di cento milioni di utenti, l’1 luglio 2013). Oggi, il social network sta lavorando al suo “reader” personale. I particolari sul progetto, confermato da alcune voci interne, restano però avvolti nel mistero: secondo TechCrunch, l’aggregatore sviluppato a Menlo Park dovrebbe puntare molto sull’impatto grafico delle news, e non dovrebbe utilizzare la tecnologia RSS, considerata ormai superata. Resta ancora sconosciuta la data d’introduzione del prodotto, anche se c’è grande curiosità: Facebook ha sempre coltivato, in segreto, il sogno di diventare un’enorme edicola virtuale, in grado di offrire una grande varietà di contenuti e novità rilevanti a livello sociale e locale. “Quello che stiamo cercando di fare – disse Zuckerberg a marzo 2013 – è offrire a tutti il miglior giornale personalizzato possibile”. Staremo a vedere.
[…]
L’eredità dei social network
Gli esempi sopra riportati cercano d’illustrare come i social network – Facebook e Twitter in testa – abbiano avuto un forte impatto sul modo in cui produciamo e fruiamo le news, con un approccio diverso e complementare rispetto al mobile. La quarta “S” del giornalismo moderno è anche la più importante, perché è una delle fondamenta su cui ricostruire. Oggi, chi è fuori dai social è fuori dai giochi; se un giornale non riesce a sfruttare adeguatamente le piattaforme sociali, si priva di un traffico enorme. E il futuro, ne sono convinto, porterà sempre di più in questa direzione.