Tra giugno e luglio è il momento dell’erba. No, non quella che state pensando. Quella dei campi di Wimbledon, il più antico torneo di tennis. L’unico del Grande Slam a essere giocato su un tappeto verde. Ogni appassionato nutre una fascinazione particolare per Wimbledon. E tutti gli appassionati italiani sanno che il loro sport ha, nella nostra lingua, un unico cantore. Lui troverebbe retorica questa definizione (lo è: perdonateci, l’abbiamo fatto apposta). Con ironia Gianni Clerici preferisce definirsi scriba, «come dicono gli americani». Già Italo Calvino aveva intuito che l’inviato di Repubblica in lungolinea era uno scrittore prestato allo sport. Per ricordarcelo, e ricordare a tutti la dimensione mitologica dei Championships, Clerici ha voluto raccogliere in volume sessant’anni di cronache da Wimbledon.
Dentro Wimbledon. Sessant’anni di storia del più importante torneo del mondo (744 pagine con fotografie, Mondadori) gli aficionados sanno già che non troveranno soltanto dichiarazioni per la stampa o il mero rendiconto delle partite vinte o perse. No: «Ci sono, a rendere impraticabile ciò, due invenzioni: la tv, e il flusso di coscienza di James Joyce». Rino Tommasi, storico partner delle telecronache, chiama Clerici «Il Dottor Divago», ed è un titolo di merito. Tra le pagine passano aneddoti, dettagli, curiosità, personaggi, considerazioni tecniche e tattiche. Senza mai mettere da parte la competenza, stretta parente della passione di chi a Wimbledon, prima di sedere da spettatore, ha giocato. Era il lontano 1953, e a Londra Clerici arrivò con una Topolino.
Da allora, il tennis ha cambiato molte stagioni – annate, le chiama Clerici con riferimento vinicolo – e protagonisti. A Clerici piace affibbiare soprannomi. Ad esempio, ai due in copertina: Borg è l’Orso, McEnroe il Bauscia (neanche Clerici sa spiegare perché Borg abbia sposato Loredana Berté, ma fa niente). Il loro tiebreak nella finale del 1980 ispira un attacco memorabile: «Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì. Non solo per questo, la finale mi è parsa indimenticabile. Prima di andar sotto, quella testa rossa e dura di Mac ha salvato qualcosa come sette match point. Prima di difendere in quel modo orgoglioso una sconfitta quasi sicura, aveva condotto il match per circa un’ora e dieci minuti, facendo apparire Borg goffo, inadeguato all’erba, a tratti impaurito». L’articolo continua tra «unghielli», «sassata bimane», «misa a muerte». E più di un punto esclamativo, senza disturbo per nessuno. Clerici è uno dei pochissimi a potersi permettere l’uso del punto esclamativo in un articolo di giornale. Può farlo perché ha puntato tutto sul linguaggio. È ciò che l’ha reso un’icona, amata dai lettori quanto e più dei campioni di cui scrive.
E anche lo scriba, in fatto di letture, ha i suoi amori. Considera Bassani il suo maestro: chiamava Wimbledon «il Vaticano del tennis». Ed è convinto che il più bel libro sul tennis sia Livelli di gioco di John McPhee, uscito nel 1969. McPhee, premio Pulitzer e colonna del New Yorker, è considerato uno dei padri del New Journalism, il giornalismo con caratteristiche narrative nato negli anni Sessanta su riviste americane come Esquire, Rolling Stone o lo stesso New Yorker.
Livelli di gioco esce ora in Italia, in un libretto intitolato semplicemente Tennis. Clerici ne invocava un’edizione già venticinque anni fa. Edito da Adelphi (con una copertina elegantissima, che riprende un’illustrazione per il Wimbledon del 1922), ospita due testi di McPhee, intervallati al centro da un saggio del curatore Matteo Codignola, egli stesso ossessionato dal tennis. Il primo è quello amato da Clerici. Il secondo, Twynam di Wimbledon, è un ritratto del giardiniere capo dei campi londinesi, personaggio ideale per una grande firma.
Livelli di gioco parte dal tennis per raccontare i cambiamenti dell’America. La partita che aveva attratto l’attenzione di McPhee non è riportata in nessun albo d’oro del tennis. Era una semifinale del primo US Open della storia (1968), aperto a professionisti e dilettanti. Disputata a New York, su un campo di Forest Hill, tra Artur Ashe, nero, e Clark Graebner, bianco wasp (white anglo-saxon protestant). Entrambi categoria amateurs. Vinse Ashe, poi trionfatore del torneo. Il primo nero nella storia del Grande Slam. Il match McPhee l’aveva seguito per caso in tv. Con le registrazioni della telecronaca, andò da Ashe e Graebner per raccogliere commenti. I due si conoscevano fin da ragazzini. Insieme facevano parte del team americano di coppa Davis. Non nutrivano ostilità reciproca, ma rappresentavano due mondi opposti.
«Arthur pensa che Graebner, figlio di un dentista, giochi un conciso e rigido tennis repubblicano. Graebner pensa che Ashe, nato a Richmond, giochi un tennis disinvolto, dentro o fuori, liberale, democratico», recita il risvolto del libro che Clerici comprò a New York il giorno dopo aver conosciuto l’autore.
Dal modo di stare in campo McPhee risale alla personalità, e dalla formazione della personalità può arrivare al contesto sociale e politico. Tutto a partire dalla mente dei tennisti in azione. Scrive McPhee: «Nel tennis i meccanismi motori traducono la storia personale e il carattere in colpi e caratteristiche di gioco. Un metodico tenderà a giocare in modo metodico, mentre chi ha estro nella vita lo tirerà fuori anche in campo. Una partita lottata, tesa, è prima di ogni altra cosa uno scontro di psicologia». Al contrario di Clerici, il giornalista americano non divaga mai. Ha uno stile «verticale, non orizzontale», nota Marco Imarisio sul Corriere della Sera. L’esatto contrario di Clerici, all’apparenza. Ma della capacità di concentrazione sui dettagli di McPhee, il giornalismo ha bisogno tanto quanto delle occhiate collaterali del «Dottor Divago».