Vittorio Sereni, la voce lombarda della poesia del ‘900

Nasceva cento anni fa

Vittorio Sereni raccontato da Carlo Maria Ossola sul sito della Treccani

Vittorio Sereni, Poeta ( Luino 1913 – Milano 1983). Visse dal 1932 a Milano, laureandosi in Estetica con Banfi (1936); dopo aver insegnato nei licei (1937-1940), collaborò a “Corrente”.

Chiamato alle armi nel 1939, viene congedato nel settembre 1940 e richiamato nel 1941; fatto prigioniero nel 1943 in Sicilia , viene trasportato in Nord Africa (Algeria e Marocco), ove rimane prigioniero sino al luglio 1945.
Riprende l’insegnamento (1948-52) a Milano; viene poi assunto in Pirelli, all’Ufficio stampa e propaganda, ove rimane sino al 1958, quando passa alla direzione editoriale della casa editrice Mondadori .

La sua poesia prende le mosse dall’ermetismo, distinguendosi fin dall’esordio
(Frontiera , 1941; edizione accr. Poesie , 1942; edizione definitiva Frontiera , 1966) per un dettato sobrio e disincantato. Indicato da Luciano Anceschi (nell’antologia da lui curata La linea lombarda , 1952) come capostipite della variante lombarda del novecentismo poetico, S. approfondì il suo stile per “arte del levare”: «Ogni eccedenza andata altrove. O spenta» (Fissità ), in un esercizio vigile di coscienza [«Con dolcezza (Vittorio, / Vittorio) mi disarma, arma / contro me stesso me»( Paura seconda )].
Le sue essenziali raccolte (Diario d’Algeria , 1947, ed. accr. 1966; Gli strumenti umani , 1965; Stella variabile , 1979, edizione definitiva 1981) si legano ai momenti salienti della propria vicenda umana, dalle esperienze di guerra e di prigionia agli anni dello sviluppo economico, vissuti con severo distacco critico (esemplare la polemica in versi con Fortini in Un posto di vacanza ).

Critico (Letture preliminari, 1973) e traduttore (Il musicante di Saint-Merry, 1981), Sereni scrisse anche prose che sono in stretto rapporto con la sua poesia (Gli immediati dintorni, 1962, edizione accr. Gli immediati dintorni primi e secondi, post., 1983; L’opzione e allegati , 1964, poi in Il sabato tedesco , 1980; Senza l’onore delle armi , post., 1987).

Postumi sono inoltre usciti la raccolta Tutte le poesie (1986), l’edizione critica delle Poesie (a cura di D. Isella , 1995) e volumi di lettere, tra cui il carteggio con Attilio Bertolucci ( Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, 1994). La sua poesia è la più alta del secondo Novecento, si affaccia impassibile di fronte al nulla: «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?» (Autostrada della Cisa).

Poesie di Vittorio Sereni

♦ I versi 

Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio anch’esso d’anni.

No, non è più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte.
Nemmeno io volevo questo, so

che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti, se domani

tu stesso te ne scordi.

♦ Un Sogno

Ero a passare il ponte
su un fiume che poteva essere il Magra
dove vado d’estate o anche il Tresa,
quello delle mie parti tra Germignaga e Luino.
Me lo impediva uno senza volto, una figura plumbea.
«Le carte» ingiunse. «Quali carte» risposi.
«Fuori le carte» ribadì lui ferreo
vedendomi interdetto. Feci per rabbonirlo:
«Ho speranze, un paese che mi aspetta,
certi ricordi, amici ancora vivi,
qualche morto sepolto con onore».
«Sono favole, – disse – non si passa
senza un programma». E soppesò ghignando
i pochi fogli che erano i miei beni.
Volli tentare ancora. «Pagherò
al mio ritorno se mi lasci
passare, se mi lasci lavorare». Non ci fu
modo d’intendersi: «Hai tu fatto
– ringhiava – la tua scelta ideologica?»
Avvinghiati lottammo alla spalletta del ponte
in piena solitudine. La rissa
dura ancora, a mio disdoro.
Non lo so
chi finirà nel fiume.

♦ La Spiaggia

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: Non torneranno più –

Ma oggi
Su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
Quelle toppe solari… Segnali
Di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
In giorno va sprecato, ma quelle
Toppe di inesistenza, calce o cenere
Pronte a farsi movimento e luce.
Non
Dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
Parleranno.

♦ Autostrada della Cisa

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).

Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.

Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.

Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn.

Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.

Ancora non lo sai
– sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

 Da una visita in fabbrica

Lietamente nell’aria di settembre più sibilo che grido
lontanissima una sirena di fabbrica.
Non dunque tutte spente erano le sirene?
Volevano i padroni un tempo tutto muto
sui quartieri di pena:
ne hanno ora vanto della pubblica quiete.
Col silenzio che in breve va chiudendo questa calma mattina
prorompe in te tumultuando
quel fuoco di un dovere sul gioco interrotto,
la sirena che udivi da ragazzo
tra due ore di scuola. Riecheggia nell’ora di oggi
quel rigoglio ruggente dei pionieri:
sul secolo giovane,
ingordo di futuro dentro il suono in ascesa
la guglia del loro ardimento…
ma è voce degli altri, operaia, nella fase calante
stravolta in un rancore che minaccia abbuiandosi,
di sordo malumore che s’inquieta ogni giorno
e ogni giorno è quietato – fino a quando?
O voce ora abolita, già divisa, o anima bilingue
tra vibrante avvenire e tempo dissipato
o spenta musica già torreggiante e triste.
Ma questa di ora, petulante e beffarda
è una sirena artigiana, d’officina con speranze:
  stenta paghe e lavoro nei dintorni.
Nell’aria amara e vuota una larva del suono
delle sirene spente, non una voce più
ma in corti fremiti in onde sempre più lente
un aroma di mescole un sentore di sangue e fatica.

La potenza di che inviti si cerchia
che lusinghe: di piste di campi di gioco
di molli prati di stillanti aiuole
e persino fiorirvi, cuore estivo, può superba la rosa.
Sfiora torrette, ora, passerelle
La visita da poco cominciata: s’imbuca in un fragore
Come di sottoterra, che pure ha regola e centro
E qualcuno t’illustra. Che cos’è
Un ciclo di lavorazione? Un cottimo
cos’è? Quel fragore. E le macchine, le trafile e calandre,
questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente,
rumore che si somma a rumore e presto spavento per me
straniero al grande moto e da questo agganciato.
Eccoli al loro posto quelli che sciamavano là fuori
qualche momento fa: che sai di loro
che ne sappiamo tu e io, ignari dell’arte loro …
Chiusi in un ordine, compassati e svelti,
relegati a un filo di benessere
senza perdere un colpo – e su tutto implacabile
e ipnotico il ballo dei pezzi dall’una all’altra sala.

Dove più dice i suoi anni la fabbrica,
di vite trascorse qui la brezza
è loquace per te?
Quello che precipitò
nel pozzo d’infortunio e di oblio:
quella che tra scali e depositi in sé accolse
e in sé crebbe il germe d’amore
e tra scali e depositi lo sperse:
l’altro che prematuro dileguò
nel fuoco dell’oppressore.
Lavorarono qui, qui penarono
(E oggi il tuo pianto sulla fossa comune).

«Non ce l’ho – dice – coi padroni. Loro almeno
sanno quello che vogliono. Non è questo,
non è più questo il punto».
E raffrontando e rammentando:
«… la sacca era chiusa per sempre
e nessun moto di staffette, solo un coro
di rondini a distesa sulla scelta tra cattura
e morte …»
Ma qui non è peggio? Accerchiati da gran tempo
E ancora per anni e poi anni ben sapendo che non
più duramente (non occorre) si stringerà la morsa.
c’è vita, sembra, e animazione dentro
quest’altra sacca, uomini in grembiuli neri
che si passano plichi
uniformati al passo delle teleferiche
di trasporto giù in fabbrica.
Salta su il più buono e il più inerme, cita:
e di me si spendea la miglior parte
tra spesso e proteste degli altri – ma va là – scatenati.

La parte migliore? Non esiste. O è un senso
di sé sempre in regresso sul lavoro
o spento in esso, lieto dell’altrui pane
che solo a mente sveglia sa d’amaro.
Ecco. E si fa strada sul filo
cui si affida il tuo cuore, ti rigetta
alla città selvosa:
– Chiamo da fuori porta.
Dimmi subito che mi pensi e ami.
Ti richiamo sul tardi -.
Ma beffarda e febbrile tuttavia
ad altro esorta la sirena artigiana.
Insiste che conta più della speranza l’ira
e più dell’ira la chiarezza,
fila per noi proverbi di pazienza
dell’occhiuta pazienza di addentrarsi
a fondo, sempre più a fondo
sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito
un grido troppo tempo in noi represso
dal fondo di questi asettici inferni.

Gli scrittori Piero Chiara e Vittorio Sereni rivivono la loro giovinezza trascorsa a Luino in un documentario girato il 10 marzo 1965

Vittorio Sereni e Piero Chiara a Luino, in un video della RSI. Per vedere il video clicca sull’immagine

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