Ogni Papa mette al servizio della Chiesa i propri talenti personali. «Gesù Cristo», ricorda San Paolo, «è lo stesso: ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). Il suo Vangelo, la “buona notizia”, non cambia. I modi per annunciarlo e metterlo in pratica sì. Sono infiniti, sorprendenti e originali come gli uomini. Quello di papa Francesco è cominciato la sera del 13 marzo 2013, cinque mesi fa, con un semplice «buonasera» e con la richiesta ai fedeli di pregare per lui. È proseguito con gli appelli a non ridurre la Chiesa ad una «Ong pietosa», con l’invito alle suore (e non solo a loro) ad essere «madri e non zitelle», con i viaggi a Lampedusa e a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù.
Difficile tracciare un bilancio. Meno arduo, forse, isolare alcune parole chiave di questo pontificato. Eccole.
MISERICORDIA
È l’enciclica non scritta di papa Francesco che con le sue parole, i gesti, lo stesso stile comunicativo ha deciso di far risaltare l’aspetto fondamentale del Dio cristiano: la misericordia. La buona notizia del Cristianesimo, infatti, è questa: Colui che ti giudica è anche Colui che ti salva e puoi chiamarlo padre. Le parole del Papa:
«Io credo che questo sia il tempo della misericordia. Questo cambio di epoca, anche tanti problemi della Chiesa – come una testimonianza non buona di alcuni preti, anche problemi di corruzione nella Chiesa, anche il problema del clericalismo, per fare un esempio – hanno lasciato tanti feriti, tanti feriti. E la Chiesa è Madre: deve andare a curare i feriti, con misericordia. Ma se il Signore non si stanca di perdonare, noi non abbiamo altra scelta che questa: prima di tutto, curare i feriti. È mamma, la Chiesa, e deve andare su questa strada della misericordia. E trovare una misericordia per tutti. Ma io penso, quando il figliol prodigo è tornato a casa, il papà non gli ha detto: “Ma tu, senti, accomodati: che cosa hai fatto con i soldi?”. No! Ha fatto festa! Poi, forse, quando il figlio ha voluto parlare, ha parlato. La Chiesa deve fare così. Quando c’è qualcuno… non solo aspettarli: andare a trovarli! Questa è la misericordia. E io credo che questo sia un kairós: questo tempo è un kairós di misericordia».
TENEREZZA
È con questo atteggiamento, avverte il Papa, che Dio, in Cristo, è entrato nella storia degli uomini e si è fatto loro compagno di viaggio. Un vescovo che non fa sentire la fragranza di questa tenerezza è un burocrate della fede, non un pastore.
«Esistono (…) pastorali “lontane”, pastorali disciplinari che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti organizzativi… ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora la “rivoluzione della tenerezza” che provocò l’incarnazione del Verbo. Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli. Da questo tipo di pastorali ci si può attendere al massimo una dimensione di proselitismo, ma mai portano a raggiungere né l’inserimento ecclesiale, né l’appartenenza ecclesiale. La vicinanza crea comunione e appartenenza, rende possibile l’incontro. La vicinanza acquisisce forma di dialogo e crea una cultura dell’incontro».
ONG
È il rischio che corre la Chiesa quando diventa burocratica, autoreferenziale, mondana e soprattutto parla di tutto e su tutto ma tace sull’essenziale, cioè Cristo. Una tentazione sempre in agguato per molti preti e vescovi.
«La Chiesa è istituzione, ma quando si erige in “centro” si funzionalizza e un poco alla volta si trasforma in una ONG. Allora la Chiesa pretende di avere luce propria e smette di essere quel “misterium lunae” del quale ci parlano i Santi Padri. Diventa ogni volta più autoreferenziale e si indebolisce la sua necessità di essere missionaria. Da “Istituzione” si trasforma in “Opera”. Smette di essere Sposa per finire con l’essere Amministratrice; da Serva si trasforma in “Controllore”. Aparecida vuole una Chiesa Sposa, Madre, Serva, più facilitatrice della fede che controllore della fede. (…) La Chiesa non è una ong. È una storia d’amore».
GIOIA
Il discepolo di Cristo, dice il Papa, si riconosce da un atteggiamento fondamentale: la gioia del volto. Essa è indice di umiltà, serenità del cuore, fede profonda.
«L’allegria è buona, rallegrarsi è buono. Ma la gioia è di più, è un’altra cosa (…). È un dono. L’allegria, se noi vogliamo viverla tutti i momenti, alla fine si trasforma in leggerezza, superficialità, e anche ci porta a quello stato di mancanza di saggezza cristiana, ci fa un po’ scemi, ingenui, no? Tutto è allegria? No. La gioia è un’altra cosa. La gioia è un dono del Signore. Ci riempie da dentro. È come un’unzione dello Spirito (…) Ma se noi vogliamo avere questa gioia soltanto per noi, alla fine si ammala e il nostro cuore diviene un po’ stropicciato e la nostra faccia non trasmette quella gioia grande ma quella nostalgia, quella malinconia che non è sana. Alcune volte questi cristiani malinconici hanno più faccia da peperoncini all’aceto. (…) La gioia è una virtù pellegrina. È un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada».
DISCEPOLI DI EMMAUS
Sono l’icona di chi se n’è andato, forse per sempre. Di chi si è allontanato dalla Chiesa deluso e disilluso, forse anche disgustato. La Chiesa, avverte il Papa, non abbia paura di uscire a cercare questi fratelli nella «notte» in cui si sono smarriti.
«I due discepoli di Emmaus scappano da Gerusalemme. Si allontano dalla “nudità” di Dio. Sono scandalizzati dal fallimento del Messia nel quale avevano sperato e che ora appare irrimediabilmente sconfitto, umiliato, anche dopo il terzo giorno (…). Il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa; di persone che, dopo essersi lasciate illudere da altre proposte, ritengono che ormai la Chiesa – la loro Gerusalemme – non possa offrire più qualcosa di significativo e importante. E allora vanno per la strada da soli, con la loro delusione. Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo povera per rispondere alle loro inquietudini, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi, forse il mondo sembra aver reso la Chiesa un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande; forse la Chiesa aveva risposte per l’infanzia dell’uomo ma non per la sua età adulta. Il fatto è che oggi ci sono molti che sono come i due discepoli di Emmaus; non solo coloro che cercano risposte nei nuovi e diffusi gruppi religiosi, ma anche coloro che sembrano ormai senza Dio sia nella teoria che nella pratica. Di fronte a questa situazione che cosa fare? Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione. Serve una Chiesa che sappia dialogare con quei discepoli, i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con il proprio disincanto, con la delusione di un Cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso».
INDIFFERENZA
Papa Bergoglio visita Lampedusa l’8 luglio 2013 e lancia una corona di fiori nelle acque per ricordare i migranti morti in mare
È stata al centro del grido profetico del Papa a Lampedusa e la critica più forte alla globalizzazione economica che se, da un lato, ha aperto nuove prospettive di sviluppo, dall’altro ha anestetizzato i cuori di tutti, cristiani compresi.
«La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. “Chi ha pianto?”. Chi ha pianto oggi nel mondo? Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto».
PERIFERIE
Il Papa a Rio de Janeiro il 26 giugno 2013 in occasione della Giornata mondiale della gioventù (Afp)
Benedetto XVI parlava di «deserto», Francesco utilizza un altro termine: periferie. Geografiche, esistenziali, spirituali: qui sono ricacciati gli esclusi, i poveri, i sofferenti, le vittime della “cultura dello scarto” che si è imposta quasi automaticamente con la globalizzazione.
«Non possiamo restare chiusi nella parrocchia, nelle nostre comunità, nella nostra istituzione parrocchiale o nella nostra istituzione diocesana, quando tante persone sono in attesa del Vangelo! Uscire inviati. Non è semplicemente aprire la porta perché vengano, per accogliere, ma è uscire dalla porta per cercare e incontrare! Spingiamo i giovani affinché escano. Certo che faranno stupidaggini. Non abbiamo paura! Gli Apostoli le hanno fatte prima di noi. Spingiamoli ad uscire. Pensiamo con decisione alla pastorale partendo dalla periferia, partendo da coloro che sono più lontani, da coloro che di solito non frequentano la parrocchia. Loro sono gli invitati VIP. Andare a cercarli nei crocevia delle strade. (…) La realtà insieme si capisce meglio non dal centro, ma dalle periferie».
TEMI ETICI
La conferenza stampa sull’aereo che da Rio lo riporta a Roma. A un giornalista Papa Francesco risponderà: «Chi sono io per giudicare un gay?» (Afp)
Perché, si sono chiesti in molti, il Papa non parla mai dei temi etici: dall’aborto alle nozze gay all’eutanasia? Forse si prepara a cambiare qualcosa nella dottrina della Chiesa? No, semplicemente Francesco ha scelto di non ribadire ogni volta la posizione antropologica della Chiesa su questi temi lasciando il compito alle Conferenze episcopali dei vari Paesi. Una decisione spiegata sul volo di ritorno dopo il viaggio in Brasile.
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«La Chiesa si è già espressa perfettamente su questo (aborto e matrimoni tra persone dello stesso sesso, ndr). Non era necessario tornarci, come non ho parlato neppure della frode, della menzogna o di altre cose sulle quali la Chiesa ha una dottrina chiara! (..) Non era necessario parlare di questo, bensì delle cose positive che aprono il cammino ai ragazzi. Non è vero? Inoltre, i giovani sanno perfettamente qual è la posizione della Chiesa! (…)Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla? Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega in modo tanto bello questo».
FEDE
È il tema della prima enciclica del pontificato scritta “a quattro mani” con Benedetto XVI e pubblicata nel cuore dell’Anno della Fede che si concluderà a novembre.
«La fede in Gesù Cristo non è uno scherzo: è uno scandalo! Che Dio si sia fatto uno di noi, che sia morto in Croce, è uno scandalo. La Croce continua ad essere scandalo, ma è l’unico cammino sicuro, quello della Croce, l’Incarnazione di Gesù. Per favore, non frullate la fede in Gesù Cristo. C’è il frullato di arancia, c’è il frullato di mela, c’è il frullato di banana, ma per favore non bevete frullato di fede. La fede è intera, non si frulla. È la fede in Gesù. È la fede nel figlio di Dio, fatto uomo, che mi ha amato ed è morto per me».
Twitter: @AntonioSanfra