Altro che non fare tardi… Ma c’è chi questa frase la dice davvero: la Terra in un anno gira intorno al Sole, nel suo astronomico moto di rivoluzione e qualcuno, nello stesso tempo, prende e va, per trascorrere un intero anno all’estero, all’incrocio tra qualche latitudine e longitudine, per un’esperienza che la sua bella dose di rivoluzionario la porta decisamente con sé. E sono questi, a cavallo tra luglio e agosto, i giorni delle partenze, dalla Sicilia all’Uruguay, dal Molise alla Norvegia, dal Piemonte alla Nuova Zelanda, dalla Toscana al Costarica, o alla Cina, o alla Germania e goodbye.
Chissà cosa avranno pensato i genitori di Giovanni, a metà anni Cinquanta, al sentirsi dire dal figliolo che sarebbe partito per Buffalo, nel freddo e lontano stato di New York. Allora si andava per nave, nel continente oltre oceano. Non c’erano voli, men che meno low cost, e Giovanni partì. Del resto eran tempi in cui anche salire da Sud a Nord era una mezza rivoluzione. Nulla, però, che potesse fermare il giovanissimo Giuseppe, per un gruzzolo di settimane da Reggio Calabria a Torino in pieni anni Settanta – erano i tempi di Anastasi alla Juve – quando Nord e Sud lentamente si avvicinavano.
Parteciparono entrambi, Giuseppe e Giovanni, a un programma di Intercultura, associazione che dal Quarantasette socchiude e spalanca frontiere in ogni angolo di mondo. Partirono, tornarono, anche se una piccola parte di ognuno in realtà restò lì, per lasciar spazio al ritorno a una grande parte di quanto visto altrove.
Oggi Giuseppe è giornalista, forse un po’ anche grazie ai piatti lavati nella cucina di Torino, ai cineclub scoperti nelle sere lassù, ai corridoi e alle classi del liceo d’Azeglio. E quelle settimane lontane le mette adesso nel lavoro, che richiede la stessa curiosità di quando era ragazzo, e le mette nel suo ruolo di padre, che non è affatto male avere un babbo giramondo.
Giovanni è padre anche lui, anzi, Padre con la maiuscola, nei suoi abiti talari da vescovo, che è il suo lavoro di oggi. Mi dice che non ne aveva idea, di questo suo futuro, quando partì adolescente, ma di sicuro gli orizzonti aperti lontano un po’ di strada gliel’hanno indicata. E chissà cosa avranno pensato, i genitori di Giovanni ormai grandicello, al sentirsi dire che avrebbe fatto il sacerdote…
Un anno all’estero quando di anni se ne hanno diciassette, più o meno, non è un anno qualsiasi. È spesso lì che ha inizio il resto della vita e come tutti gli inizi – si sa – ha un sapore frizzante.
Non fa il vescovo, ma se ne sta a tu per tu con il cielo lassù, Luca, che da Catania volò in California vent’anni fa e oggi vola e orbita in quel paradiso tecnologico che è la Stazione Spaziale Internazionale… internazionale e interculturale per forza! E chissà che messaggio di benvenuto lascerà a Samantha, che l’anno dopo di lui andò da Trento in Minnesota e l’anno prossimo sarà lassù a orbitare anche lei.
Se le chiedi cosa porterà nello spazio con sé, di quell’anno, nemmeno ci pensa e risponde semplicemente tutto. Poi aggiunge, Samantha, che l’abitudine ad affrontare selezioni e nuovi ambienti, di saltare da una lingua all’altra, di far parte di un mondo variopinto, l’ha agevolata non poco anche nella sua nuova avventura, che alla fine partire da Fiumicino o da Bajkonur non sarà poi così diverso…
È spesso l’America, la meta più ambita: accadeva soprattutto quando l’America era un’idea, più che una nazione. Ma il mondo ormai è molto più che socchiuso e c’è chi davvero va ovunque, fin dove l’Est e l’Ovest si toccano. Nel Settantasei Marco partì per un paesino sperduto nei boschi della Svezia, dove gli inverni sono lunghi, il sole se ne va in fretta e la neve raggiunge i tetti. Per imparare lo svedese è bene prima conoscere l’inglese e la fatica è doppia, ma la soddisfazione pure. C’è chi pensa che si parta proprio per imparare una lingua da mettere nel curriculum, e questo succede per forza, altrimenti con chi chiacchieri mentre sei là? Sì, ma la lingua appresa è infine solo una splendida e utile conseguenza di un’esperienza ben più grande e formativa. E va a finire che per Marco essere tra i pochi italiani a conoscere a fondo la cultura di quel paese, lo abbia agevolato nella professione di avvocato, al punto da diventare console onorario.
Oggi si parte e c’è internet, la mail, Skype, e magari una webcam per che faccia vivere in diretta a chi sta a casa ciò che si scopre lontano. Non è sempre stato così e chissà quanta voglia aveva, il giovane Franco, di strillare nella cornetta, probabilmente chiamando a carico di mamma e papà, le proprie avventure, parlando in fretta per non spendere troppo. Passavano anche giorni e giorni, tra una chiamata e l’altra e altrettanti ne impiegava una lettera a raggiungere casa, da Portland. Sarà per questo che oggi quel Franco è a capo dell’azienda telefonica del paese? Chiamerà ancora a carico, per sentire la sua famiglia di allora? Che poi è un po’ la sua famiglia anche oggi.
Già, perché non solo i ragazzi e le ragazze vanno e vengono, ma le famiglie si moltiplicano e si allargano, e mom and dad lo diventano anche quelli in prestito per un anno, altroché. Allora c’è chi a Bologna ha una figlia giapponese, una danese e una australiana e, oltre a queste, pure due figlie naturali, che però hanno una dei genitori anche ai Caraibi e l’altra negli Stati Uniti.
Saranno quasi duemila i ragazzi italiani che in questi giorni incontreranno i loro nuovi genitori e fratelli, sorelle e compagni di scuola. E saranno quasi mille i ragazzi che dai paesi lontani e vicini trascorreranno l’anno nella nostra Italia e chissà quanto anche loro si porteranno, di noi, nel loro futuro. Già, perché un anno così non finisce mai: lo ritrova Antonio nei libri che scrive e Maria Concetta quando parla in tivù, lo ritrova Sergio all’università e ogni giorno, in ufficio, lo ritrova anche Roberto, finito nel Cinquantasette tra le mandrie e il petrolio del Texas e, dieci anni più tardi e ancora oggidì, alla guida dell’associazione e al fianco dei ragazzi che arrivano e partono. Perché praticamente chiunque oggi organizzi gli anni altrui ha vissuto il suo periodo anche lui.
È una insolita forma di cervello in fuga, quella di chi viene e va, perché non è in fuga per nulla, se non dagli stereotipi e dai conformismi, ma ormai il mondo si è talmente rimpicciolito – chiedere agli astronauti lassù… – o ingrandito, dipende da che parte la si guarda, che l’idea di nazione fa quasi sorridere. Chi prende e va ha il biglietto di ritorno in saccoccia, che se non torni, come farai, poi, a ripartire? Hanno il piede in mille scarpe i giovani con lo sguardo oltrefrontiera e forse per questo corrono e galoppano di più. Galoppano e si confrontano, ma alla fine nessuno sa dirti se sia meglio qui o meglio lì. Per tutti, davvero, la cosa migliore è prendere e andare.
E goodbye.
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