Poi viene il momento in cui c’è bisogno di chiarire le cose. Reecentemente sono rimbalzate a destra e a sinistra, sui giornali online, sui blog, sui social network, le opinioni, più o meno autorevoli – più meno che più, ma arriveremo anche a questo – riguardo la professionalità e il destino dei giornalisti freelance. Il pretesto, come ormai non ci sarebbe più bisogno di specificare, è nato da un articolo pubblicato da Francesca Borri sulla Columbia Journalism Review – ne ho parlato qui – riguardo le condizioni delle giornaliste indipendenti nelle zone di guerra. Il caso ormai si è sgonfiato e quindi il momento è propizio per far venire a galla le questioni importanti. Non si tratta dell’onestà intellettuale del pezzo, problema su cui tutti si sono sentiti di dire la loro e su cui pende una richiesta di fact-checking – condotta da Valigia Blu – non ancora colta, ma della questione che tace latente al di sotto di tutte le righe spese riguardo il caso: cosa sono, e cosa sta succedendo ai freelance.
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Per prepararmi all’eventualità di dover scrivere un articolo del genere, ho cercato di formarmi un’opinione quanto più completa, non tanto sulla figura del freelance – che dovrei ben conoscere – quanto su quello che si pensa in proposito. Non ne sono venuto a capo. Ognuno sembra avere un’idea differente e generalmente poco chiara del lavoro che sta facendo, e tutti sembrano aspettarsi una mano santa dal cielo che li conduca, se non a un ingaggio permanente, per lo meno a pagamenti regolari e conformi a uno standard internazionale non ben precisato. Ora, il fatto che negli ultimi anni, per una serie di fattori tristemente convergenti, la crisi abbia colpito duramente il giornalismo italiano non è un mistero. Le grosse firme si sono ancorate alle redazioni – parlo soprattutto del giornalismo culturale, il campo che conosco meglio – e per chi navigasse in acque meno affermate, o si avvicinasse per la prima volta alla professione, non è rimasta altra alternativa che quella della retribuzione al pezzo. Sempre, irreversibilmente, dannatamente, troppo bassa.
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Una delle grandi rivelazioni a cui pare si sia arrivati, che personalmente non mi ha per niente stupito, è la definizione standard di giornalista: «Chi è in grado di riconoscere, sviluppare e vendere la notizia». Vero, sacrosanto. Ma dove finisce la responsabilità dei direttori e dei capi redattori nello stabilire quanto vale il lavoro di un freelance, e dove inizia la suddetta capacità di vendere la notizia? Può darsi che ci troviamo di fronte a un concorso di colpa di difficile soluzione, o può darsi che il giornalismo stia sostanzialmente cambiando – non in peggio – e la necessità di comprendere quanto vale il proprio lavoro, in termini ora più che mai pratici, sia il vero e proprio nodo del cambiamento. Quella variazione infinitesimale che rischia di ridefinire da capo il mestiere.
I nuovi giornalisti, quasi tutti sotto o attorno ai trent’anni – salvo qualche eccezione che non manca di farlo notare a ogni occasione, ma si tratta più che altro di passi indietro – sono animali dinamici, costretti al movimento costante, alla caccia spietata. La premessa di saper riconoscere la notizia non è del tutto esatta, si tratta più che altro di saper creare la notizia intorno a quanto appaia momentaneamente interessante o degno di nota. Isolarla, renderla appetibile e stimolare il dibattito attorno a essa. Il mezzo – sembra importante dirlo seppur di fronte all’evidenza – è cambiato. I pezzi si muovono su terreni sconnessi e rapidissimi, che rischiano di estinguersi in una manciata di click, per questo cresce la necessità – non il vezzo – di saper tenere in vita gli argomenti, oltre che di saperli portare sotto il naso del lettore. Una delle tendenze più fastidiose delle numerose opinioni del post caso Borri, è quella di considerare il giornalismo digitale una mera gara di like. In parte è così, ma è lo specchio dell’informazione che cambia e deve essere in grado di adattarsi ad un prodotto costantemente perfettibile e – per sua natura – evanescente. I nuovi giornalisti – dire freelance ormai è superfluo e ha l’aria di quelle parole ripetute troppe volte, che perdono di significato – devono essere in grado di comprende la propria spendibilità sul breve periodo, non storcere il naso di fronte a nulla e imporre la propria firma al di sopra di quante ne appaiono e scompaiono in rete un giorno dopo l’altro.
Non è soltanto una questione di numeri, non basta scrivere di più per fare la differenza, altrimenti si rischia di infilarsi nel ginepraio dei blog di opinione e di perdersi in quella massa, già di per se confusa, di informazioni di scarsa qualità che bisognerebbe cercare di contrastare.
È inutile dire che il futuro è pieno di insidie: a partire dall’estrema semplicità e scarsa autorevolezza della maggior parte delle auto-pubblicazioni, della dubbia provenienza e onestà dei blogger affamati di contatti, delle testate che aprono e chiudono, riaprono e richiudono sempre più provate da banner e liste, gallerie fotografiche e filmati. La perdita della grammatica, il rilancio della retorica, la secondarietà dei fatti rispetto alla grandezza dei titoli. I freelance stanno camminando all’indietro, tornando a un tempo in cui la differenza tra un giornalista e uno scrittore la faceva la posizione scomoda, con la macchina da scrivere appoggiata sulle gambe, ora trasformata in un laptop, un pad o il registratore di un cellulare. «Deve mancare il respiro, per scrivere qualcosa di sensato», diceva quel gran genio del dottor Thompson, e sembra che i tempi si stiano facendo maturi per un po’ di sana acqua alla gola.
Per tornare al principio, questo panorama di estrema varietà e generico miscuglio di professionalità e dilettantismo, rende difficile stabilire quanto valga il lavoro di ogni giornalista. Va da sé che se il problema è quello di venire pagati settanta euro al pezzo per rischiare la vita in una zona di guerra, c’è, di fondo, una difficoltà di comunicazione con i propri uffici direttivi, ma se la faccenda è stabilire il prezzo di un articolo culturale è un altro paio di maniche. Sono convinto che presto si delineeranno spontaneamente dei paletti – lasciamo perdere le fesserie del tipo: «unitevi e fatevi valere» – che distingueranno un lavoro ben fatto e giustamente retribuito, da un generico blog di costume. Esiste una differenza sostanziale tra l’una e l’altra cosa – è importante ribadirlo, battendo i pugni sul tavolo, sono due cose diverse – e quella differenza deve per forza di cose fare da spartiacque per la sopravvivenza della professione – privilegiata – che tutti abbiamo scelto e la maggior parte di noi ama profondamente. Ma solo se i nuovi giornalisti si renderanno conto della necessità di stabilire il valore di ogni loro sforzo, senza il timore reverenziale che di solito è riservato agli scrittori di narrativa e la presunzione dei mestieranti, si andrà definendo il futuro del una nuova corrente, dalla quale ora tutti sembra vogliano fuggire, ma che, volenti o nolenti, è già la norma.
Twitter: @GiulioGDAntona