L’Italia è sostenibile. Le sue finanze pubbliche sono in ordine e la recessione è finita. No, a dirlo non è il Tesoro italiano, bensì la seconda banca più antica del mondo, la tedesca Berenberg, fondata nel 1590. In un’analisi di pochi giorni fa, i tre economisti Holger Schmieding, Christian Schulz e Robert Wood hanno preso in esame i conti pubblici italiani e il quadro che ne emerge è ampiamente positivo. Ma guai ad affermare che va tutto bene. Restano le incognite su tenuta del governo guidato da Enrico Letta e situazione del sistema bancario alla luce della enorme mole di Non-performing loan, crediti dubbi.
Il report di Berenberg, passato quasi inosservato, inizia sottolineando una cosa ovvia. «L’Italia ha un problema di reputazione», scrivono Schmieding, Schulz e Wood. Complici i diversi processi a Silvio Berlusconi, e la conseguente fragilità dell’esecutivo corrente, negli investitori c’è la credenza che le finanze pubbliche del Paese siano pessime. E dando una sommaria occhiata al rapporto fra debito e Pil, ormai a quota 130%, unito al tasso medio di crescita degli ultimi vent’anni, stimato da Berenberg in 0,7%, sembra che tutto il sistema sia insostenibile. Certo, c’è poco da stare allegri. Come infatti ricorda il Fondo monetario internazionale (Fmi), un eventuale rallentamento nel processo di consolidamento fiscale e nelle riforme potrebbe frenare una riduzione del debito negli anni a venire. Ma potrebbe andare peggio, ribatte Berenberg.
«L’Italia ha smesso di essere un peccatore fiscale vent’anni fa». I tre economisti lo mettono nero su bianco. Complice l’introduzione dell’euro, il Paese è stato costretto ad avere una stretta disciplina di bilancio che gli ha permesso da un lato di evitare balzi in avanti sul fronte della spesa pubblica e dall’altro di ridurre il proprio rapporto debito/Pil di quasi 20 punti percentuali fra il 1995 e il 2007. Poi, è arrivata la crisi subprime, il collasso di Lehman Brothers e il terremoto sui debiti sovrani della zona euro, che hanno ridotto il Pil e innalzato il debito pubblico, facendo impennare il relativo rapporto. Ma, fa notare Berenberg, se si fa una comparazione Italia, Germania e Usa dal 1995 a oggi, «la performance italiana sembra quasi stellare». Merito anche, ricorda la banca tedesca, di «uno dei più sostenibili sistemi pensionistici dell’Occidente» e di un surplus primario del 4,1% del Pil nel 2012. Quest’ultima, spiegano Schmieding, Schulz e Wood, è di gran lunga la miglior posizione fra i Paesi occidentali. Ecco perché, dicono, anche con un regime di bassa crescita, le finanze pubbliche italiane sono sostenibili.
C’è di più. La più antica banca tedesca dà ragione al ministro delle Finanze Fabrizio Saccomanni. Berenberg infatti ritiene che per l’economia italiana il peggio sia passato. In altre parole, si può iniziare a pensare a una lieve ripresa per il quarto trimestre dell’anno, dopo otto trimestri consecutivi di contrazione. Un’espansione che dovrebbe prendere vigore durante il prossimo anno. E se così fosse, ne gioverebbe il deficit pubblico. Secondo Berenberg il rapporto deficit/Pil relativo al 2013 dovrebbe attestarsi al 3,5%, quindi sopra i parametri del Fiscal compact, ma in caso di moderata ripresa potrebbe scendere fino al 2% nel 2014. In questo quadro, ovviamente, il rapporto debito/Pil dovrebbe iniziare a calare a partire dal prossimo anno.
Ma quindi è tutto rose e fiori? La crisi è finita? Berenberg non dice altro, se non che la posizione italiana è migliore di quello che si potrebbe immaginare. Peccato che si dimentichi di tre fattori su tutti. Il primo sono le conseguenze di una possibile crisi di governo. Che sia l’IMU o che siano le vicissitudini giudiziarie di Berlusconi, in caso di crollo anticipato dell’esecutivo di Letta, gli investitori potrebbero reagire in modo nervoso e imprevedibile. Troppa sarebbe l’incertezza derivante da nuove elezioni. Troppo potrebbe essere il tempo perduto. Troppi potrebbero essere gli sviluppi sul rating sovrano italiano, che potrebbe finire in poco tempo nell’area junk, spazzatura, costringendo le società finanziarie a una riallocazione di portafoglio rispetto all’Italia.
Poi, c’è il secondo fattore. Le banche italiane sono appesantite da diversi problemi: scarsa profittabilità rispetto ai competitor europei, elevata dipendenza dalla politica, forte presenza di titoli di Stato italiani in portafoglio e una quantità incredibile di Non-performing loan (Npl), circa 250 miliardi di euro a marzo di quest’anno. Gli investitori internazionali lo sanno. E non aiuta l’autarchia che sta dettando la Banca d’Italia, di concerto con il Tesoro, sulle valutazioni dei rating di portafoglio, che secondo le autorità finanziarie italiane devono essere indipendenti dalle principali agenzie di rating mondiali. Significherebbe mettere la testa nella sabbia. Piuttosto, meglio pensare a soluzioni alternative. Una bad bank per i Npl, come suggerito da Mediobanca Securities qualche mese fa. O una serie di dismissioni di asset non strategici, come detto da Fmi e Banca d’Italia.
Infine, il terzo elemento dimenticato. Anche assumendo una tiepida ripresa economica e il mantenimento dell’attuale surplus primario, occorre ricostruire buona parte del tessuto industriale del Paese ed evitare che il credit crunch peggiori. Non solo. Senza una riduzione degli oneri fiscali per le imprese, questo potrebbe non essere possibile. Come rammenta periodicamente l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il carico fiscale dell’Italia continua a essere fra i più elevati. Tagliare si può, quindi. Meglio partendo dalla riduzione strutturale, con conseguente razionalizzazione, della spesa pubblica.
Nell’arco di due estati l’Italia è passata dall’essere ostaggio di Deutsche Bank all’entusiasmo della seconda più antica banca mondiale, guarda caso anch’essa teutonica. Sono lontani i tempi i cui Berlusconi gridava al complotto bancario di DB, colpevole secondo il leader del Pdl di aver venduto i titoli di Stato italiani in pancia dando il La alla fase più acuta della crisi del Paese. L’opinione di Berenberg fa sperare che il peggio possa davvero essere alle spalle. Tuttavia, rimane l’amaro in bocca per via delle numerose dimenticanze. E la speranza è che non siano queste ultime a lasciar il segno maggiore.
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