I paesi Bric rallentano – o, per essere più precisi e nebulosi – “riducono il loro ritmo di crescita”. Gli stessi grandi investitori decidono di tornare ai vecchi porti sicuri. Che sia arrivato finalmente il momento dell’Europa? Il potenziale dell’eurozona è molto più rilevante rispetto ai suoi attuali problemi. Le questioni “strutturali” sono prevalentemente di tipo politico, più che di natura economica. Se, nonostante l’austerity, l’eurozona è cresciuta dello 0,7% nel secondo trimestre dell’anno, significa che c’è una forza produttiva in attesa di essere espressa.
Che non si pecchi d’ingenuità: è una trentina d’anni che si tira fuori la storia del “momento dell’Europa che è finalmente arrivato”. Sul finire degli anni Novanta si parlava ancora della “Fortezza Europa” che avrebbe spaventato il mondo. Alcuni anni fa Lorenzo Bini Smaghi ha pubblicato un libro in cui si decantavano le virtù dell’euro, citando il fatto – pur vero – che le modelle internazionali per un periodo hanno preferito la nostra valuta a quella americana. Il problema è stato che regolarmente ogni speranza è naufragata in un mare di piccoli litigi e cattiva amministrazione economica. Le prospettive di unificazione politica si sono perse nella solita foresta dei nazionalismi. Alla fine, al posto di esprimere un “modello”, si è preferito rifugiarsi nell’austerity.
Nel bene e nel male, dobbiamo accettare l’Europa per ciò che è: sono le nazioni a rendere il continente così perversamente interessante. Va bene se la gente ha diverse abitudini, diverse lingue, e ha un umorismo diverso (per quanto c’è da pensare che alcuni paesi del Nord non abbiano alcun umorismo). Finché tutto questo non impedisce l’integrazione economica e i piani politici continentali, va benissimo. Alla fine, nonostante le nazionalità diverse, l’Europa rappresenta un modello con vantaggi unici a livello mondiale.
Prima di tutto, l’Europa può contare su infrastrutture solide e sviluppate. Sarà per l’eredità dell’Impero Romano o per essere entrata nell’industrializzazione un paio di secoli fa, l’Europa ha porti, autostrade, ferrovie, aeroporti e terminal di tutti i tipi. Certo: l’Italia è affetta dal cancro della Salerno-Reggio Calabria e dall’influenza dei No-Tav, mentre Berlino sta aspettando un Godot da cinque miliardi di euro chiamato “Aeroporto Willy Brandt”. Ma se paragoniamo l’infrastruttura europea alla situazione in molti paesi emergenti, stiamo messi meglio. L’Europa ha già interconnesso centri finanziari e industriali, città, regioni produttive. Se un’azienda ha bisogno di una fornitura, c’è da aspettarsi che la riceverà in tempi ragionevoli (a meno che non si trovi a Reggio Calabria).
Poi l’Europa può (ancora) contare su una popolazione istruita e preparata. È noto che la cittadinanza sta invecchiando, ma l’investimento in educazione ha portato i suoi frutti. Non dobbiamo ancora insegnare a milioni di persone a leggere e scrivere, e c’è ancora una riserva protetta di ingegneri e altre personalità tecniche. Basterà trovare un vaccino contro la piaga di persone con lauree in moda e comunicazione, possibilmente riprogrammandole (e non che moda e comunicazione siano un male – è solo che contano troppi aficionados). L’educazione e l’esperienza hanno creato una cultura imprenditoriale avanzata, in grado di resistere alle peggiori politiche fiscali del mondo.
Gli europei sono benestanti. Un’occhiata alle statistiche insegna molto sulla capacità continentale di lamentarsi. Ciò non significa che la crisi non esista. Bisogna però riconoscere che molte persone negli ultimi anni sono state in grado di accumulare sostanziosi risparmi, che adesso faticano a trovare collocazioni diverse rispetto all’acquisto di orrendi monolocali a Berlino.
Un punto ulteriore è il fatto che l’Europa è un posto bellissimo. In “Ritratto di Signora” di Henry James, l’espatriato americano Gilbert Osmond a Firenze dichiara quanto sia una tragedia «vivere in un paese che gli altri vengono a visitare» («That’s what it is to live in a country that people come to») – ma è pur vero che il piacere di poter lavorare vicino alle più celebrate città del mondo è un vantaggio. È anche una questione di obbiettivi: chi ha successo può traslocare al centro di Parigi – non in qualche centro industriale della Cina interna, dirimpetto a qualche altoforno.
Il vero limite dell’Europa è l’Europa stessa. I limiti politici di regolamentazione, tasse alte, leggi sul lavoro granguignolesche riducono il potenziale del continente. Vale per le aziende di tutte le dimensioni, ma in particolare per quelle medio-piccole, che soffrono un carico burocratico con pochi eguali (si osservino le statistiche Ocse sulle ore da dedicare alla compilazione della dichiarazione dei redditi), e troppe tasse e zavorre occulte. È assurdo parlare di crisi europea come “crisi del modello neoliberale”, come se l’Europa fosse il Venezuela o il Cile degli anni Sessanta. In realtà, il problema è l’opposto. L’Heritage Foundation ha calcolato che in Danimarca, Belgio e Svezia le entrate fiscali rispetto al totale dell’economia sono più alte rispetto a Cuba. Dieci paesi europei (includendo anche la Norvegia) hanno un livello di entrate fiscali superiore al 40%.
Questo non è un appello allo spirito di Ayn Rand, ma una constatazione di fatto: il wild spirit dell’Europa dovrebbe essere lasciato libero di lavorare per la crescita, e non essere impantanato in discussioni di comodo su “quegli egoisti tedeschi” o “quei pigri greci”. L’idea che l’aumento delle tasse e il taglio della spesa pubblica possa portare alla crescita è ovviamente una scemenza. Una riduzione del carico fiscale, insieme a una deregolamentazione, potranno consentire alle imprese di crescere, sfruttando tutti i vantaggi del continente. Solo così la domanda interna recupererà, e l’Europa potrà prendere il posto che le spetta.
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