Osserva i suoi aggressori e li perdona nel momento stesso in cui lo schiaffeggiano, «non è con me che ce l’hanno». Così Matteo Renzi lo sfregia dicendogli di «non cercare alibi ma di governare», e lui nicchia. Guglielmo Epifani lo consiglia, minaccioso, di «non farsi logorare», e lui sorride. Anche Silvio Berlusconi gli fa sapere, torvo, che «l’Imu va abolita», e lui piega impercettibilmente la testa di lato, come si fa con coloro i quali vanno sempre accontentati, mai contraddetti, perché comunque sia «non è con me che ce l’ha».
Nessuno meglio di Enrico Letta, cauto e avvolgente presidente del Consiglio, capisce d’essere soltanto il bersaglio collaterale dei tanti colpi di cannone che i signori della guerra politica d’Italia si sparano addosso l’un l’altro, con foga e persino con ferocia. E dunque non s’impressiona, Letta, delle schegge che pure lo blandiscono e talvolta gli rigano il volto, sa infatti che Renzi guerreggia con Epifani e gli altri padroncini del Pd, e sa pure che il Cavaliere è anche lui impegnato forse nell’ultima e decisiva delle sue tante battaglie, quella per la sopravvivenza personale. In mezzo, sulla linea di tiro, c’è lui, Letta, il capo di un governo così fragile da sembrare saldissimo, fedele alla regola secondo la quale in Italia niente è più stabile di ciò che appare provvisorio, lui che viene utilizzato da tutti come fosse un prigioniero, un ostaggio di cui si minaccia l’esecuzione qualora il nemico non accetti un accordo, un armistizio conveniente o addirittura la resa incondizionata.
Ma la minaccia è inefficacie, se appartiene a tutti, se è nella disponibilità di ciascuno degli attori sul proscenio. E difatti non è del tirare le cuoia che Letta ha paura, «il governo durerà», ripete a chiunque, ma è del tirare a campare che Letta è spaventato, perché considera questa eventualità alla stregua di una maledizione che lo tormenta, gli incide di perplessità la fronte. E così talvolta, malgrado ostenti il dovere dell’ottimismo e della fiducia, questo abile e mediorientale presidente del Consiglio ha davvero l’impressione d’essere un prigioniero politico, paralizzato sulla linea di tiro dei tanti eserciti che si fronteggiano tra loro sul campo esausto della politica italiana. E si contorce per questo, confortato soltanto dalla incoercibile volontà di Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica, il lord protettore della grande coalizione, lui che lo guida, lo consiglia, lo protegge e gli impone pure di restare al suo posto qualsiasi cosa accada.
Letta soffre dei contrasti e dei veti incrociati che complicano la sua opera di governo, al punto da averla fino ad oggi impaludata, mentre lui vorrebbe soltanto librarsi in volo, scrollarsi di dosso la polvere desolata delle trame di potere che lo imbrigliano, non vorrebbe più manipolare alchimie e combinazioni politiche. Il decreto «del fare», l’unica vera conquista della legislatura, certo non gli basta, Letta nutre la violentissima ambizione di chi vorrebbe salvare il paese povero e sfasciato da sé stesso e dalle sue troppe fazioni in lotta. Ma il prigioniero è prigioniero, non può cadere, non può liberarsi, e nemmeno può governare; al più gli è concesso di sopravvivere in balìa di orde che scorrazzano disordinate per il Parlamento, sporcandone la tappezzeria con le loro sregolatezze inconcludenti.
Renzi si fa sempre più tosto, e assieme ai suoi fedeli alleati in armi sembra voler espugnare la fortezza del Pd difesa dagli Epifani, dai Bersani, dai D’Alema, e sembra proprio voler conquistare l’ambito potere con la minaccia di versare il sangue grancoalizionista di Letta. Ma lo stesso fanno anche i suoi avversari, quelli che vorrebbero trascinare il capo del governo nella mischia: «Letta sei con noi o contro di noi?», gli chiedono con tono spiccio, a tratti persino sgarbato. Gli hanno anche proposto di candidarsi alle elezioni, di favorire il voto anticipato, e soltanto per tagliare la strada a Renzi. Anche loro, i Bersani, gli Epifani e i D’Alema, alternano intimidazioni e oscure allusioni, vorrebbero colpire a morte l’odioso nemico, il vanaglorioso di Firenze, ma finiscono sempre con il ferire quel neutrale Letta che invece vorrebbero difendere: ne impediscono il lavoro, lo strattonano, lo coinvolgono nella rissa, lo ricacciano giù nella palude, dimostrano una genialità tattica così tortuosa da confondersi con la stoltezza.
E così fa pure il Cavaliere inquieto e condannato, che coltiva la speranza di potersi salvare, e per questo non c’è giorno che non scateni uno dei suoi tanti falchi rapaci contro il governo, contro il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, l’uomo dei conti pubblici, lui che sempre si muove al fianco del presidente del Consiglio. Ma nemmeno per Berlusconi è Letta il vero obiettivo. Incalzare il premier significa ammorbidire il suo protettore Napolitano, il gran signore del governo, il presidente della Repubblica che conserva, ben riposte da qualche parte, le chiavi che aprono il prezioso scrigno della grazia giudiziaria. E dunque ciascuno dei contendenti gioca così il suo gioco pericoloso, che nasconde il solito marasma triste della destrezza politica, la voluttà delle lotte di piccoli capicorrente, la carezzevole velleità di farla franca. Mentre Letta resta lì, inerme ad osservarli, come loro prigioniero.
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