Dalla crisi si esce solo grazie al nuovo manifatturiero. Ossia coniugando l’antica sapienza artigiana con quella contemporanea digitale. Ed è diventato questo il motto adottato dalle Confindustrie delle aree produttive, da Trieste ad Ancona, dopo che il presidente della Confindustria veneta, Roberto Zuccato, le ha riunite per dare una lezione (e un incoraggiamento) alla classe dirigente delle medie e grandi imprese italiane, che forse conoscevano già le seguenti cifre: in queste aree produttive si crea il 70% del valore manifatturiero, il 69% del fatturato, il 60% degli investimenti, con il 66% delle persone occupate.
Ed è infatti innegabile, che in mezzo a tante ristrutturazioni, cali rilevanti della produzione, anche all’interno di colossi come la Geox (per fare un esempio) ci sono eccellenze che andranno studiate, perché fanno scuola e sono dei fari nella nebbia. Numerosi fari che hanno bisogno di più luce, per essere (ri)conosciuti, secondo il docente di Economia e Gestione delle Imprese dell’Università di Ca’ Foscari, Stefano Micelli. Nel suo popolare saggio, Futuro Artigiano – ormai adottato come manuale didattico nelle aziende che ce la fanno o pensano di farcela – aveva già messo in fila ed analizzato le eccellenze italiane, capaci di realizzare quella che lui definisce “innovazione pratica”.
Le eccellenze, però, a volte possono essere anche irreali, impalpabili, quasi impercettibili, ed essere costruite da aziende che il manufatto lo custodiscono, lo seguono, lo spostano. Entrando a testa alta nella nicchia di aziende che hanno internazionalizzato e aumentano fatturati grazie all’export, senza essere per forza artigiani. Con buona pace degli ideologi del rinascimento manifatturiero.
È così che, a Biadene di Montebelluna, in provincia di Treviso, i fratelli Valter e Vittorino De Bortoli, hanno creato un nuovo modello. Da una piccola azienda di trasportatori, che avevano seguito le aziende di scarpe e scarponi delocalizzate in Romania, negli anni Ottanta, hanno costruito una multinazionale tascabile.
Intuendo che, per crescere, espandersi e internazionalizzarsi, dovevano organizzarlo, il trasporto, diventando retrovia e fieno in cascina del manifatturiero. Trasformando la loro azienda in un’agorà globale, una piazza internazionale da cui passano e si incrociano i flussi del mercato mondiale. Dal Veneto a Shangai. Passando dall’India e da Dubai. Con 80 milioni di fatturato nel 2012, solo in Italia, 87 previsti nel 2013. Con 440 dipendenti, di cui 110 in India, dove il Db Group ha sei succursali. Con 300mila spedizioni quotidiane via terra, via mare, via aria, che spostano 4500 tonnellate di merci ogni giorno. E fa una certa impressione, vedere nei capannoni, costruiti dietro l’edificio di vetro del quartiere generale di Db Group, i 70mila quadrati da cui transitano le merci, dopo aver passato una dogana interna al magazzino.
Caso unico nel Veneto, e comunque raro in tutta Italia, perché oltre ad avere l’autorizzazione a sdoganare le merci per 4000 clienti, loro li chiamano account, da Montebelluna si possono esportare merci negli Stati Uniti, senza ulteriori controlli, grazie a un’altra patente d’idoneità ottenuta dall’azienda: quella concessa dalle dogane statunitensi contro il terrorismo, che hanno affidato la sicurezza delle merci al metal detector interno del Db Group. Nei magazzini, dove ci sono 40 uscite, “i portelloni” per riempire i container, lavorano operai esterni, presi dalle cooperative di facchinaggio.
Dentro gli uffici del quartiere generale, invece, ci sono soprattutto manager, il 60% donne, che studiano strategie per aggredire nuovi mercati e riuscire ad aumentare il cross-trading, e prima o poi diventare un’agorà così impalpabile che, magari non passerà più, o quasi, dall’Europa. Inserendosi nelle rotte di quelli, che ancora vengono definiti mercati emergenti. Per intercettare i traffici interni in Cina, in India, in America Latina, in Russia, in Medio Oriente. E nel frattempo, nella propria dogana, mentre sono ancorati qui, all’export europeo, al giro delle merci di grandi imprese venete che esportano verso Francia, Spagna, Germania, Francia, Europa orientale, loro hanno pensato anche di trasformare una dogana interna in uno show-room, per clienti cinesi o arabi, che portano campioni di merce da mostrare ai presunti clienti.
Difficile da descrivere uno spazio impalpabile, quasi irreale, dove l’unica materia che si può vedere, ma non toccare, sono scatoloni in transito, perché poi l’attività logistica per la merce avviene altrove, dove lì, sì, si può sfiorare qualcosa di molto concreto: la crisi economica. Nei loro magazzini, dispersi in varie zone del Veneto, dove la merce, può rimanere ferma per settimane, a volte mesi, per via della contrazione del consumo interno, non solo italiano, ma anche europeo. O anche nei loro uffici, nel quartier generale, dove si devono monitorare con zelo ossessivo i pagamenti dei clienti, sempre più spesso in ritardo, che rischiano di intoppare lo spostamento veloce di merci, documenti e capitali.
«Certo far transitare la merce attraverso l’Europa è più facile», mi spiega l’Ad di Db Group, Silvia Moretto, 36 anni, «mentre organizzare quelli intercontinentali nei paesi asiatici, latinoamericani, o in Russia è più difficile perché sono paesi protezionisti. Perciò dobbiamo studiare strategie ogni giorno più aggressive, e costruire un progressivo know-how per saper mediare con altre culture difficili da interpretare», ammette. Come, ad esempio, non perdere la pazienza se una merce che fa il giro dell’India si perde, o stare attenti alle rigide gerarchie aziendali in Cina, dove basta un ritardo di mezz’ora di un documento per finire sulla black-list della dogana.
Certo, anche qui, nel 2009, il fatturato è diminuito di colpo, in modo sensibile, per poi ripartire nel 2010, con un ulteriore spinta verso l’internazionalizzazione dell’azienda, che ora è composta anche da sedici società all’estero, che complessivamente hanno un fatturato di 119 milioni di euro. «Ovvio, non siamo esenti dai sommovimenti e mutamenti improvvisi dei mercati, ma la nostra sfida è continuare ad adeguarci ai flussi delle merci», osserva ancora l’Ad, Silvia Moretto. E infatti la loro sfida, inserirsi nel trasporto dei mercati nazionali esteri, è ancora tutta da vincere: rappresenta solo il 10% del loro fatturato, ma l’agorà globale, impalpabile di merci che arrivano per ripartire, per essere assemblate, stoccate, o trasformate in un kit campione da inviare per conto dei propri clienti, grazie a una particolare licenza doganale, è una nuova frontiera di un commercio, che si allontana dagli stereotipi nordestini.
E dimostra la capacità di evoluzione nata sotto la spinta della recessione. Di chi ha saputo creare una nuova via della seta, creata da una piccola azienda di paroncini, che quando sono partiti avevano solo dei camion che facevano la spola fra l’Italia e la Romania. Offrendo, allora, ai propri clienti la spedizione dell’esportazione degli scarponi verso gli Usa, facendoli pagare a paia. E ora, nell’infanzia del terzo millennio vagano per il globo terrestre a bordo di una multinazionale tascabile.
Twitter: @GiudiciCristina