È questo il titolo di un libro di Angelo Salento (sociologo) e Giovanni Masino (specialista in organizzazione aziendale) uscito da poco per i tipi dell’Editore Carocci. Un libro utile per economisti, manager, uomini delle istituzioni che vogliano staccare la vista dal giorno per giorno cercando invece le grandi tendenze. Il tema che gli Autori si propongono è quello del rapporto tra finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro. In un’analisi che, a mio avviso, va riferita essenzialmente alle grandi imprese, essi rivisitano il postfordismo, i cui connotati ritengono non siano stati messi pienamente a fuoco.
Attraverso un ricco armamentario di strumenti, dai dati macrosettoriali alle indagini a mezzo interviste a manager di alto livello, Salento e Masino intendono dimostrare come la caduta del fordismo e la sua trasformazione siano avvenuti producendo quale effetto preminente l’accumulazione finanziaria e il conseguente spostamento verso di essa dell’obiettivo delle imprese; anzi, a loro avviso sarebbe stata proprio la finanziarizzazione a indurre quella caduta. Il processo ha comportato il passaggio del comando da tecnici a manager di formazione e competenza eminentemente finanziaria.
Si distinguono due diverse fasi della finanziarizzazione. La prima ha modificato la struttura dell’impresa, concepita non come “fabbrica” tout-court, ma come portafoglio di investimenti. Compare una prima generazione di manager di formazione finanziaria anziché tecnica; questa fase comincia dagli anni sessanta del secolo scorso e introduce la misura delle performance (redditività a breve termine) di ciascuna linea di prodotto. Le imprese sono ora entità che garantiscono differenti tassi di profitto prima che produttori di determinate categorie merceologiche.
La seconda fase inizia negli Stati Uniti negli anni ’80 e viene indirizzata dai principi, richiesti dagli investitori istituzionali, della massimizzazione del valore dell’impresa per l’azionista. Questi princìpi comportano la dis-integrazione delle fasi produttive all’interno delle stesse imprese le quali si specializzano in un core business scegliendo le fasi più profittevoli, usando modelli organizzativi più flessibili e quindi più “adatti” agli investitori i quali debbono diversificare i rischi nel comporre i propri portafogli. Cambia il rapporto tra proprietà e management al quale non viene più chiesto di perseguire obiettivi di puro aumento della produttività, ma azioni tese ad incrementare quanto più possibile il valore dell’impresa; anche perché la sua remunerazione viene legata a quello.
L’aumento del valore è sovente inteso nel senso puramente cartaceo, effetto di capital gain prodotti dalla scomposizione e ricomposizione di complessi aziendali oggetto di acquisizioni e fusioni. Crescono di importanza i cosiddetti intangibles, la cui valutazione è assai deformata dalle aspettative degli stessi manager. Le aziende diventano dunque sempre più “libri dei sogni” e sempre meno strumenti di progresso materiale e sociale per lavoratori e cittadini.
Come misurare la finanziarizzazione? Se si guarda l’impresa valgono le proporzioni del capitale investito in attivi finanziari. Ai dati e ai grafici degli Autori aggiungo i risultati dell’ultima indagine di R&S (Multinationals: Financial Aggregates, 387 companies, 2013): le maggiori multinazionali della triade esponevano a fine 2011 un complesso di attivi finanziari pari al 26% del totale attivo, mentre gli intangibles raggiungevano il 19%; l’attività più propriamente industriale assorbiva quindi poco più della metà del capitale complessivo. Inoltre, nel triennio 2009-2011 gli impieghi di capitale aventi natura finanziaria (acquisizioni, liquidità e dividendi) hanno costituito tra 1,5 e 1,7 volte quelli industriali, rispettivamente, in Europa e in Nord America. Quando si guarda agli investitori, i fenomeni macroscopici riguardano i riacquisti sul mercato di proprie azioni. Operazioni che non hanno alcunché di “reale”, ma volte unicamente a mantenere una leva più adeguata per il conseguimento di profitti, più elevati in quanto più rischiosi, che possano soddisfare la permanenza degli investitori. In Nord America queste operazioni hanno totalizzato oltre 1.700 miliardi di dollari negli ultimi 10 anni, in Europa oltre 900 miliardi di euro.
Quali le conseguenze della finanziarizzazione? La più evidente è l’indebolimento del lavoro rispetto al capitale, quale condizione per il recupero dei profitti. Esso si manifesta con la progressiva riduzione della quota di valore aggiunto che va ai salari, con la crescita della diseguaglianza sociale attraverso il sacrificio delle classi intermedie e, infine, nel mezzo della crisi che oggi viviamo, nella persistenza di ampie fasce di dis- e sotto-occupazione le quali consentono di mantenere la compressione dei salari, essendo la produzione garantita attraverso le delocalizzazioni. Ma il nuovo assetto non ha trasferito il potere, e i suoi vantaggi, agli imprenditori, bensì ai detentori del capitale finanziario; tra essi il ruolo guida è stato assunto dalla grande finanza internazionale. Dal che si risale forse al “movente” del processo di finanziarizzazione della grande industria, ovvero al desiderio, soprattutto anglosassone, di imporre i propri modelli e di assorbire gli aumenti del valore delle imprese attraverso il trasferimento, il “maneggio”, dei flussi finanziari alle loro istituzioni (banche e fondi).
Come si esce da questo nuovo ordinamento che spinge una quota crescente della popolazione verso stati di crescente malessere? Il libro si conclude con alcuni passaggi sulla democrazia industriale. Non v’è dubbio che gli Autori abbiano ragione nel ritenere il sistema attuale instabile, quanto meno in prospettiva. Prima o poi le classi sacrificate (dominanti se contassero le teste) reagiranno, con modi più o meno democratici. Un déjà vu? Nel mezzo della grande depressione seguita alla crisi finanziaria del 1929 John Maynard Keynes giustificò la terza via, tra il laissez faire brutale e il collettivismo autoritario: l’intervento pubblico in regime democratico. Nel mezzo della nuova grande depressione prodotta ancora dalla finanza è legittimo attendersi il comparire di una nuova via. Il crollo del comunismo ha condotto l’Occidente ad un capitalismo ridotto quasi totalmente a nuovo liberismo, alla mercé degli investitori istituzionali gestiti dalle grandi banche internazionali, collusive e inquinanti rispetto ai pubblici poteri (ne sono stati prova i massicci programmi di salvataggio delle banche sotto la spinta delle loro lobby). Di Stato “inquinato” ne abbiamo oggi fin troppo se guardiamo a spese e debiti posti a carico dei cittadini, comunque funzionali alla stessa finanziarizzazione, i cui protagonisti condannano e maneggiano al tempo stesso quegli stessi debiti.
Salento e Masino propongono di ripensare la governance delle imprese. La gestione andrebbe condotta in accordo tra lavoratori e rappresentanti del capitale (manager); citano il modello tedesco e parlano di una nuova “responsabilità sociale”. Non sono i soli. Giacomo Becattini (“The Crisis of Capitalism”; Economia Internazionale, n. 4 November 2011) ha immaginato una conciliazione degli interessi pubblici e di quelli privati della grande impresa in un sistema “bicamerale” istituito a livello locale che funzioni assicurando la joie de vivre dei cittadini, ma difendendo pure il prezioso spirito dell’imprenditorialità rivolto al giusto profitto.Ma come raggiungere un risultato che non sia una pura dichiarazione d’intenti?