Chissà se quando Gertrude Stein diceva «una rosa è una rosa» intendeva dire che è solo un fiore e di non fare tanti versi, oppure che è impossibile separarla da tutti i simboli, le implicazioni sentimentali, le poesie cui è legata e quindi una rosa è tutto questo insieme. Invece, se pensiamo a un muro, il concetto è semplice: un muro è un muro, divide, separa, difende, si erge davanti a noi come una barriera che ferma i nostri pensieri e non ci pensiamo su più di tanto. Forse è proprio la sfida al senso comune di bloccarsi, anche in senso metaforico, davanti a una barriera che rende così speciale, indimenticabile L’Infinito di Leopardi. E proprio dall’ostacolo di una siepe «che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» che nasce il bisogno di infinito. «Me sedendo e mirando, interminati spazi e silenzi, e profondissima quiete/ io nel pensier mi fingo, ove per poco/ il cor non si spaura…».
Forse bisogna ricorrere all’arte per aprirci un varco nell’immagine stereotipata del muro cieco, sordo e muto. Esiste nel cuore della Toscana, a Gaiole in Chianti, un produttore di vini, Marco Pallanti che con la moglie Lorenza Sebasti ha trasformato il borgo settecentesco e la campagna intorno in un museo a cielo aperto. Il progetto che nasce nel 2000 si chiama ‘Castello di Ama per l’Arte Contemporanea’ e ogni anno viene chiamato un artista a creare un’opera site specific, ispirata al luogo, alla sua storia. Sono arrivati artisti famosi del calibro di Luoise Bourgeois, Michelangelo Pistoletto, Anish Kapoor, Giulio Paolini.
Ai fini del nostro discorso, tra le altre, ci sono due opere che val la pena di raccontare. La prima è appunto un muro di specchi di venticinque metri, intervallato da finestre quadrate che si aprono sul paesaggio intorno, si chiama ‘Sulle vigne, punti di vista’, l’ha creata Daniel Buren nel 2001. Il muro non è una barriera: la superficie riflettente ci immerge tutti nel paesaggio, perdiamo qualsiasi punto di vista, ci sentiamo fusi, tutt’uno col verde dei prati e delle piante, con le pietre delle case, col cielo. I tagli delle finestre incorniciano le balze delle viti come fossero dipinte. Realtà e immaginazione, natura e arte si confondono in un rimando continuo. La sensazione è sconcertante, sembra di vivere quel fascinoso ma ostico concetto di ‘natura naturans’ dei neoplatonici che si studiava al liceo.
Sulle vigne, punti di vista, Daniel Buren, 2001
Eppure possiamo trovare questo desiderio di costruire un muro che sia quanto di più bello si possa immaginare anche in epoche addirittura preistoriche. Intorno al 4.000 a.C., mille anni prima delle prime Piramidi d’Egitto, duemila anni prima del periodo minoico e miceneo, esisteva a Malta una misteriosa popolazione che non conosceva l’uso dei metalli, ma che costruiva incredibili mura e templi megalitici. Non sappiamo come vivessero questi preistorici maltesi, siamo così lontani nel tempo che – da ignoranti – ci viene da immaginare dei trogloditi che vivono nelle caverne, che dilaniano carne, invece ci restano le loro incredibili costruzioni. Le più antiche, tra il 3.600 e il 3.000 a.C. sorgono a Ggantija, nell’isoletta di Gozo, di fronte a Malta.
Le mura megalitiche di Ggantija, sull’isola di Gozo (Malta)
Il muro di cinta dei templi è l’elemento più impressionante del sito: alto fino a 6-8 metri, allinea monoliti sapientemente incastrati secondo la forma per consolidare la struttura, alcuni dei quali sono grandi 6 x 4 m e del peso di 50 tonnellate. La pietra usata è calcarea di struttura corallina porosa, molto resistente, di un bel color giallino, che sotto i raggi del sole diventa dorata. Alcune delle parti interne sono invece rivestite con una pietra più fine, più malleabile, la globigerina, che ben levigata assume una luminosità cangiante. Riempie di meraviglia che popolazioni che dovevano lottare per la sopravvivenza pensassero di erigere opere così meravigliose. Per costruire un muro sarebbero bastati massi di dimensioni normali, sollevare monoliti così smisurati, incastrarli in quel modo, doveva essere una prova della propria bravura, un piacere di costruire qualcosa di mai visto prima, un omaggio a una qualche divinità benefica. Un tempio successivo è quello di Hagiar Kim, posto su un magnifico promontorio sul mare.
Hagiar Kim in una cartolina d’epoca
Qui i costruttori hanno utilizzato anche per l’esterno il calcare a globigerine. La scelta può essere dipesa dalla disponibilità in loco di una grande quantità di questa pietra, ma può anche essere attribuita a una scelta precisa fatta perché la sua tenerezza e consistenza rendevano facile una lavorazione accurata. La ricerca della squadratura precisa si nota anche in molte parti dell’interno, quasi che i costruttori, avendo scoperto la bellezza della pietra ben lavorata, volessero goderne ovunque possibile. Non è un caso che all’interno di questi templi siano state trovate statue di donne incinte dai grandi seni e dai grandi fianchi, simbolo di fertilità, che assomigliano molto alle sculture di Botero, ma sono molto più raffinate e più belle. Tornando alle nostre mura, purtroppo la globigerina è assai fragile e deteriorabile, così per le strutture esterne nelle costruzioni successive si tornerà al più robusto calcare corallino. Improvvisamente, intorno al 2.500 a.C., questa straordinaria civiltà scompare senza lasciare traccia.
Torniamo al castello di Ama e ai nostri tempi. È del 2006 un’opera che ci riporta alla storia, alla politica, al concetto di muro come separazione. È dell’artista cubano Carlos Garaicoa e s’intitola ‘Yo no quiero ver màs a mis vecinos’ (‘Non voglio vedere più i miei vicini’). Tra le balze coi muretti a secco delle vigne, Garaicoa ha riprodotto in scala nove muri storici, come quello di Berlino, quello tra le due Coree, la Grande Muraglia costruiti per tenere separati i popoli e intorno ai quali si è combattuto. Inserire questi simboli di morte, questi muri impregnati di sangue, tra le balze che producono il rosso Chianti è una specie di sacrificio pagano al raccolto, alla fertilità, alla coesistenza.
Yo no quiero ver más a mis vecinos, Carlos Garaicoa, 2006
O forse si tratta di una forma di esorcismo, come quando i ragazzi di Berlino Ovest ricoprivano di graffiti, di scenette grottesche il terribile Muro che divideva in due la città, quasi che sbeffeggiandolo, si svuotasse del suo significato di morte. Fin dalla sua costruzione, nel 1961, il muro di Berlino assume una tale importanza politica e mediatica da diventare l’emblema della Cortina di Ferro. Dal 1949 al 1961 dalla Ddr sono fuggiti 2,7 milioni di abitanti; per frenare l’emorragia non bastano controlli, minacce, neanche la prigione. La guerra fredda è al suo culmine, nella notte tra il 12 e il 14 agosto 1961, con un formidabile spiegamento di soldati e di polizia, vengono installate barriere e filo spinato tra le due zone. All’alba la città è tagliata in due. Le potenze occidentali, Stati Uniti in testa non reagiscono: meglio un muro di una guerra.
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Soltanto due anni dopo J. F. Kennedy, per farsi perdonare la sua passività dai berlinesi, pronuncerà il suo famoso discorso che concluderà con: “Ich bin ein Berliner”. Ai 43 chilometri di muro che separono le due Berlino si aggiungono 112 chilometri che separano Berlino Ovest dalla Repubblica Federale tedesca, tagliando tutte le vie di comunicazione. Dopo il ’68 pannelli di calcestruzzo sostituiscono i mattoni, alti 3,69 metri, larghi 1,20 metri, il bordo superiore è cilindrico per non offrire alcuna presa. Prima del muro vero e proprio ci sono vari sbarramenti, illuminati giorno e notte, con allarmi e sorvegliati oltre che da sentinelle da quasi mille cani. Non si sa quante persone siano morte nel tentativo di varcarlo, la cifra ufficiale è 136. Decine di migliaia sono state arrestate, ma la maggior parte delle evasioni sono state attuate con l’inganno, la corruzione, piuttosto che con la forza.
A metà degli anni Ottanta l’Unione Sovietica è in piena crisi, Gorbaciov non intende intervenire, le manifestazione di protesta si susseguono, oceaniche, in tutta la Repubblica democratica tedesca, finché succede l’incredibile. Il 9 novembre 1989 in una conferenza stampa in cui sono invitati anche corrispondenti esteri, Günter Schabowski, portavoce del Comitato Centrale, dichiara che «i viaggi privati all’estero possono essere autorizzati senza presentazione dei giustificativi richiesti in precedenza. Tali autorizzazioni verranno rilasciate tempestivamente». Radio, televisioni di tutto il mondo diffondono la notizia. Le guardie ai varchi chiedono istruzioni alle autorità che non rispondono. A mezzanotte tutti i varchi sono aperti. Una folla incredula canta, ride, piange. Nei giorni successivi il muro ‘scompare’: i ‘Mauerspechte’ strappati con picconi e martelli diventano souvenir, pezzi da museo; ne nasce addirittura un fiorente commercio, falsi inclusi.
Pezzi (forse autentici) di Muro di Berlino in vendita per 9 marchi
Questa e altre vicende sono raccontate dallo storico francese Claude Quétel nel libro Muri – Un’altra storia fatta dagli uomini (Bollati Boringhieri, 24 euro, 264 pagine). La sua interpretazione parte dal bisogno di difendersi delle nazioni, i muri cioè assolverebbero insieme una funzione militare e quella di bastione di civiltà contro gli altri, i barbari ( dal greco ‘barbaros’, onomatopea con un’accezione dispregiativa per designare chi si esprime in una lingua incomprensibile). L’esempio classico è quello della Grande Muraglia cinese. L’imperatore Qin Shi Huang (247-221 a.C) pone fine al periodo feudale unificando il Paese grazie a un formidabile esercito e a un’altrettanto formidabile crudeltà. Uniforma pesi, misure, scrittura, costruisce strade, ponti, palazzi, la sua incredibile tomba, sorvegliata da settemila soldati di terracotta, i ‘soldati dell’armata morta’ e la Grande Muraglia a nord per difendere l’impero dai barbari Xiongnu. «Non bisogna allevare figli/ e allattare soltanto figlie./ Non vedi le ossa e i cadaveri/ ammassati sotto la Muraglia?», scrive un anonimo poeta, alludendo insieme ai soldati e ai milioni di operai morti per costruirla.
Nei secoli successivi il perimetro della Grande Muraglia si sposta continuamente, talvolta viene dimenticata perché il baricentro si sposta nel ricco Sud, finché Gengis Khan riesce a federare tutte le tribù mongole e i popoli delle steppe, e nel 1215 invade il paese Passando proprio attraverso i varchi da cui l’esercito cinese sferrava i suoi attacchi contro di lui. Per la prima volta la Cina è governata da una dinastia straniera, sono i barbari-mongoli i padroni e sono all’interno della Muraglia. La ‘pax mongolica’ dura fino all’avvento della dinastia Ming nel 1.400. I lavori per rafforzare la Grande Muraglia riprendono. I muri, che un tempo non superavano i quattro metri, concepiti per resistere alle macchine d’assedio, raggiungono un’altezza tra i sei e i dieci metri e sono coronati da merlature di un metro e mezzo, hanno uno spessore di sei metri e mezzo. «La sabbia gialla s’innalza fino alle nubi bianche e la muraglia solitaria si confonde con l’impressionante montagna».Tutto l’esercito, o quasi, è concentrato lì. Questa forza è una debolezza, le truppe sono immobilizzate, così nel 1664 la dinastia Ming cadrà sotto i colpi una rivolta di contadini cui si uniscono soldati mancesi in servizio presso l’esercito imperiale. Si assiste a un’invasione dall’interno. Prende il potere la dinastia Qing, che regnerà fino al 1911, fino a Puyi, l’ultimo imperatore, quello del film di Bertolucci, per intenderci. La Grande Muraglia non ha più senso: per la seconda volta sono i barbari a governare. Oggi, la Grande Muraglia dei Ming, restaurata e smagliante come fosse costruita ieri, è varcata ogni giorno da milioni di turisti.
Le fortificazioni della Linea Maginot, al confine tra Francia e Germania
Sembra quasi che più un muro di difesa sia ritenuto inespugnabile, più diventi un colosso dai piedi d’argilla, pronto a crollare al primo assalto. Pensiamo alla linea Maginot. Al di là dei costi inverosimili che avrebbero potuti essere spesi in aerei da combattimento di cui la Francia era praticamente priva, la fortificazione si arrestava incredibilmente al confine col Belgio: al Nord non c’era difesa. Sembra incredibile. Così nel 1940 a Hitler basta aggirarla davanti a Sedan. Il calcestruzzo fa fiasco anche con l’Atlatinkwall che, coi suoi quindicimila bunker da Capo Nord ai Pirenei, crolla dopo poche ore all’attacco degli Alleati il 6 giugno 1944, che ne hanno individuato il punto più debole tra i fiumi Vire e Orme. Forse il più efficace di tutti i muri è stato il limes romano, proprio perché la politica prima della repubblica e poi dell’impero era quella di inglobare gradualmente le popolazioni conquistate, facendo diventare le persone ‘cives romani’. La disamina dello storico Claud Quétel, prosegue classificando i ‘Muri di proscrizione’, come quelli della peste e i Ghetti, i ‘Muri Religiosi’, come quello del Pianto a Gerusalemme, i ‘Muri commemorativi’, come quello dei Federati al cimitero Père-Lachaise dove furono fucilati i martiri della Comune di Parigi, quelli Politici a Belfast o la ‘cactus courtain’, tredici chilometri di veri cactus e di mine che bloccano l’accesso alla prigione di Guantanamo a Cuba. L’elenco è lungo e straziante, ma quello che inquieta di più è il capitolo conclusivo: ‘I muri hanno un futuro’, con i capitoli sulle ‘Frontiere Conflittuali’, come in Corea, a Cipro; i ‘Muri contro il terrorismo’, come quello di Israele in Cisgiordania, quello egiziano a Gaza; i ‘Muri contro l’immigrazione clandestina’, da quello di Bush col Messico, a quelli di Ceuta e Melilla per tenere lontani i nordafricani da quegli avamposti d’Europa.