«El Baradei è uno str**zo». A dirlo a Linkiesta è il famoso blogger e giornalista egiziano Wael Abbas. Una definizione non certo lusinghiera per l’attuale vicepresidente del governo ad interim, insignito del Nobel per la pace nel 2005.
Abbas, che già sotto il regime di Mubarak denunciava regolarmente le violazioni dei diritti umani, non è certo un simpatizzante dei Fratelli Musulmani o dell’ex presidente Morsi. Ma non esita a definire «un golpe» la deposizione di Morsi da parte dell’esercito. Ed è molto preoccupato per il ritorno delle forze armate sulla scena politica. «La gente è scesa in strada perché era arrabbiata con Morsi, ma non ha chiesto il ritorno dei militari al potere. Questo l’hanno deciso l’esercito e i simpatizzanti di Mubarak, insieme alla polizia e a gente come El Baradei, che si è detto felice della nuova unità nazionale. Ma non so proprio che tipo di unità possa esserci fra i rivoluzionari e la gente contro la quale hanno votato un anno fa».
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Secondo Abbas sono palesi le differenze fra la rivoluzione del 25 gennaio 2011, che portò alla caduta di Mubarak, e le manifestazioni contro Morsi del 30 giugno scorso. «La rivoluzione non era sostenuta dai militari, piuttosto li costrinse a intervenire. Non aveva nemmeno il sostegno della polizia, che infatti uccise moltissimi manifestanti in quei giorni. E in più, alla rivoluzione del 25 gennaio non parteciparono elementi del regime di Mubarak». È un fiume in piena Abbas. La polarizzazione che sta spaccando la società egiziana non gli piace affatto. «Adesso, o sei contro i Fratelli Musulmani o sei con loro. Le posizioni intermedie non sono ammesse. Ma non potrà esserci nessun dialogo senza coinvolgere i Fratelli Musulmani».
Del resto Abbas è tranchant anche nel giudicare Morsi. « È la persona più stupida che abbia mai governato questo Paese. Era convinto di avere il sostegno dei militari e della polizia, di avere il controllo, e non ha neanche provato a guadagnarsi il sostegno della gente. Ha cercato in tutti i modi di favorire l’infiltrazione della Fratellanza nell’economia e nelle istituzioni del Paese, ma non ha fatto niente per rispondere ai bisogni della gente che, con la rivoluzione, aveva chiesto una vita migliore».
Che gli egiziani vogliano una vita migliore è comprensibile. Dopo la caduta di Mubarak l’economia egiziana, già debole, è peggiorata ulteriormente. E quest’anno dovrebbe crescere, secondo il Citi Research, solo dell’1,2% contro il 7% del 2008. La sterlina egiziana sta colando a picco, così come le riserve di valuta straniera, che si sono dimezzate.
In un articolo pubblicato in novembre da Linkiesta Iván Martín, ricercatore associato dell’Istituto Complutense di Studi Internazionali di Madrid, spiegava che solo un egiziano su tre ha un posto di lavoro. In un Paese giovanissimo, in cui un terzo degli abitanti ha meno di 15 anni, sarebbe addirittura l’82% dei giovani fra i 15 e i 29 anni a essere disoccupato; a riconoscerlo è la stessa Central Agency for Public Mobilization and Statistics (CAPMAS) egiziana.
Allarmanti pure i dati sulla cosiddetta insicurezza alimentare: nel 2011 ne ha sofferto il 17% della popolazione egiziana, secondo il World Food Programme (WFP) delle Nazioni Unite. Nel suo rapporto, redatto insieme alla CAPMAS, il WFP sottolinea anche come la malnutrizione infantile sia aumentata, arrivando a colpire il 31% dei bambini sotto i cinque anni (contro il 23% del 2005).
Ma l’agonia dell’economia egiziana è da attribuirsi interamente a Morsi? «A essere onesti, un anno di governo può non essere sufficiente per rimettere in sesto l’economia e attuare le riforme economiche necessarie – spiega a Linkiesta Samir Makdisi, professore emerito di economia e distinguished senior fellow presso l’Istituto Issam Fares dell’Università Americana di Beirut – Considerando le incertezze e le profonde divisioni politiche sorte da quando Morsi è stato eletto presidente, non dovrebbe stupire che le condizioni economiche si siano deteriorate. Il clima di sfiducia e la svalutazione della sterlina egiziana sono la dimostrazione di questo peggioramento». Tuttavia, «a detta di miei colleghi egiziani non ha aiutato nenche la scarsa preparazione in campo economico della leadership politica dei Fratelli Musulmani.»
A riguardo, Linkiesta ha sentito anche Alaa El-Shazly, professore di economia all’Università del Cairo. Secondo il docente, i provvedimenti più urgenti da prendere per risollevare l’economia egiziana sono evidenti. «Bisogna assicurare la stabilità, cosa che le forze dell’ordine stanno per realizzare; promuovere gli investimenti diretti stranieri; dare più spazio alle piccole imprese nell’attività economica e nella creazione di impiego; infine, ridurre il deficit».
L’ottimismo di El-Shazly su un imminente ritorno alla stabilità grazie ai militari non è tuttavia convinzione universale. Anzi, secondo vari analisti sentiti da Linkiesta, l’intervento dell’esercito rappresenta come minimo un precedente controverso nel quadro di una situazione complicata. Silvia Colombo, ricercatrice presso l’Istituto affari internazionali di Roma, ritiene «che questi avvenimenti debbano essere interpretati nel quadro di un processo di transizione più ampio, e ancora lontano dalla fine».
Detto questo, la ricercatrice sottolinea che Morsi era stato eletto dalla maggioranza relativa della popolazione, e che quella del 3 luglio è stata una decisione contraria al verdetto delle urne del giugno 2012. «L’intervento dei militari costituisce un precedente che dovrà essere valutato con attenzione. Visto il ruolo che l’esercito ha avuto nel sistema politico egiziano negli ultimi sessant’anni, nulla impedisce che una situazione del genere possa ripetersi».
Piuttosto pessimista sul futuro dell’Egitto anche Nathan Brown, professore di Scienze politiche e Relazioni internazionali alla George Washington University, nonché autore di sei libri sulla politica araba. «La politica egiziana è in mutamento. Non mi aspetto di vedere una democrazia stabile instaurarsi presto – spiega a Linkiesta. Il docente, però, non crede neanche che il Paese stia tornando all’epoca di Mubarak – Sicuramente le élite del vecchio regime stanno riemergendo, ma l’ambiente politico è molto diverso adesso».
Per i Fratelli Musulmani la presidenza Morsi è stata boicottata da persone e istituzioni rimaste fedeli al regime di Mubarak. Ma non sono gli unici a pensarlo. «Credo che parte delle forze dell’ordine abbiano cercato concretamente di danneggiare il nuovo governo, e che la maggior parte della magistratura fosse in conflitto con Morsi – dichiara Brown – Per quanto riguarda l’esercito penso che non abbia mai accettato nessun tipo di supervisione civile, tantomeno da parte dei Fratelli Musulmani. Non ritengo però che abbia cercato attivamente di danneggiare il governo».
Del resto era pura ingenuità credere che un regime autoritario decennale potesse venire spazzato via in una notte. «È chiaro che Morsi, pur avendoci provato, non è riuscito a controllare fino in fondo alcune istituzioni egiziane – spiega Colombo – E sarebbe stato impossibile farlo in così poco tempo».
Il pericolo che il regime militare di Mubarak, seppur decapitato, riemerga, non sembra preoccupare l’opinione pubblica egiziana. Secondo un sondaggio realizzato dal Pew Research Center, a marzo il 73% degli egiziani considerava positiva l’influenza dell’esercito nella vita politica del Paese, e il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) era più apprezzato degli stessi partiti.
Un dato che potrebbe stupire, considerando che nei mesi in cui ha controllato l’Egitto dopo la caduta di Mubarak, lo SCAF non si è certo distinto per il rispetto dei diritti umani. È stato nel marzo 2011, un paio di mesi dopo la rivoluzione, che i militari hanno arrestato una ventina di donne sottoponendone alcune ai cosiddetti “test di verginità”. Una conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che in Egitto il maschilismo non è certo una prerogativa esclusiva degli islamisti.
Di sicuro i militari hanno dimostrato una grande scaltrezza politica in questi mesi. Non solo hanno saputo sfruttare la loro popolarità, alimentata da anni di propaganda “patriottica” mubarakista, ma si sono ben guardati dal prendere direttamente il potere. Perché il potere non logora solo chi non ce l’ha, ma anche chi lo ha in tempi difficili. Dopo aver messo fuori gioco Morsi, infatti, i generali hanno nominato un civile come presidente ad interim.
Secondo Steven Fish, professore al dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Berkeley, «nulla garantisce che non si stia tornando all’era di Mubarak. Dimostra piuttosto che l’esercito non vuole che il nuovo regime abbia un volto militare. Del resto esso ha sempre governato da dietro le quinte». In effetti, continua Fish, «attualmente non abbiamo idea di quale sia l’opinione del popolo egiziano. È vero, le piazze si sono riempite di persone che protestavano contro Morsi e i Fratelli Musulmani, ma la decisione di spodestarlo non è stata presa attraverso un referendum o nuove elezioni. L’intervento dei militari contro un governo legittimo e democraticamente eletto costituisce un precedente disastroso nella vita politica egiziana.»
Del resto non fanno ben sperare neanche le uccisioni di decine di simpatizzanti di Morsi da parte delle forze di sicurezza. O l’intensa propaganda contro i Fratelli Musulmani nei media. Alcuni addirittura temono una deriva all’algerina per il Paese più popoloso del mondo arabo. «Non credo che si arriverà a una guerra civile – dice Brown a Linkiesta – ma penso che un conflitto civile prolungato sia possibile. Il problema non è solo che i Fratelli rifiutano di accettare il golpe, ma anche che altre forze politiche vogliono distruggere la Fratellanza. E quest’ultima non è certo una buona premessa per la stabilità».
In queste ore al Cairo si aspetta di sapere se le forze dell’ordine disperderanno (e con quali metodi) i sit-in dei simpatizzanti di Morsi. Human Rights Watch ha rivolto un appello al governo ad interim affinché impedisca che i sit-in vengano sgombrati con la forza. Ma il governo, a sua volta, ha invitato i manifestanti a tornare alle loro case, garantendo l’incolumità a coloro che lo faranno. Un messaggio per nulla rassicurante da parte di un governo che pure vanta fra le sue fila un Nobel per la pace.
Twitter: @ValentinaSaini