Ma gli azionisti di Mediaset ci hanno guadagnato

Qualunque cosa decida la Cassazione

Che lo Stato italiano sia stato danneggiato non c’è dubbio, almeno stando alla sentenza di primo grado. Che lo siano anche gli azionisti di Mediaset è questione ben più difficile da dimostrare. Se la compravendita dei diritti televisivi a prezzi gonfiati attraverso società off shore ha infatti costretto la società a sopportare oneri maggiori rispetto ai valori di mercato delle royalties, dall’altro ha consentito di iscrivere a bilancio un costo fittizio – in quanto già ammortizzato dall’azienda – ma utile ad abbattere l’imponibile fiscale.

Nelle motivazioni del pronunciamento di primo grado con cui il Tribunale di Milano ha condannato Berlusconi a quattro anni è spiegato il sistema con cui, secondo i magistrati milanesi, l’ex premier creava fondi neri: «I diritti di trasmissione televisiva», si legge, «provenienti dalle majors o da altri produttori e/o distributori, venivano acquistati da società del comparto estero e riservato di Fininvest e quindi venivano fatti oggetto di una serie di passaggi infragruppo, o con società apparentemente terze, per poi essere trasferiti ad una società maltese che a sua volta li cedeva, a prezzi enormemente maggiorati rispetto all’acquisto iniziale, alle società emittenti». Generalmente lo sfruttamento dei diritti televisivi può essere limitato ad alcuni anni o a un numero prestabilito di passaggi televisivi, oppure illimitato. Oltretutto, ogni volta che un titolo riacquistato veniva riprogrammato in palinsesto, Mediaset guadagnava sulla pubblicità. Anche se si trattava di “Giovannona Coscialunga”, trasmesso di sabato alle 3 di notte. 

Un modus operandi che per i giudici meneghini è stato perpetrato da metà anni ’80, ma parzialmente modificato in seguito alla quotazione, avvenuta nel 1996: «A partire dal 1995 e sostanzialmente in occasione della quotazione in Borsa di Mediaset e fino alla fine del 1998/9, il sistema indicato veniva parzialmente modificato, nel senso che scomparivano generalmente i passaggi infragruppo, mentre i diritti venivano fatti intermediare da società apparenti terze e poi ceduti alla società maltese International Media Service Ltd (IMS) che, a sua volta, li cedeva a Mediaset rimanendo immutato il sistema di lievitazione dei prezzi». Esempio: «[…] Il titolo “HUD” ceduto da Paramount a Whilthshire (società del produttore cinematografico Frank Agrama, per la procura “socio occulto” di Berlusconi, ndr) il 23.10.96 per 40.000 $ viene ceduto, per la stessa decorrenza, a IMS l’1.1.97 a 150.000 $ […]». E poi da IMS a Mediaset. In quest’ultimo passaggio l’unica tassazione è quella in uscita applicata dal fisco maltese, pari al 5% netto (in teoria 35%, in pratica 5% in quanto lo Stato rimborsa poi il 30%). 

Nella requisitoria, lo scorso novembre il pm Fabio De Pasquale aveva parlato di «3mila titoli in quattro anni, comprati con 12mila passaggi contrattuali» che avrebbero comportato 40 milioni di euro di costi gonfiati nel triennio 2001-2003. Nell’ambito del filone Mediatrade, per il quale Berlusconi è stato prosciolto, l’Fbi americana – coinvolta dai pm milanesi, aveva contestato il prospetto informativo dell’Ipo di Mediaset, sostenendo che descriveva poco precisamente «la natura dei rapporti di Mediaset con Paramount», basati su “accordi verbali” tra le due società, senza menzionare il ruolo di Agrama come agente mediatore dei diritti di Paramount. Analizzando il prospetto alla vigilia dell’Ipo sul Sole 24 Ore, Alberto Nosari scriveva: «Negli ultimi due anni sono stati effettuati investimenti per 2.561 miliardi (di lire, ndr), di cui 2.100 miliardi per l’acquisizione dei diritti e di questi 1.173 nel ’95 […] Da rilevare in particolare che a fine ‘95 i diritti sono iscritti in bilancio per 2.079 miliardi, di cui 440 revenienti dal conferimento».

Fonte: motivazioni sentenza primo grado Mediaset

Il risultato della girandola societeria (vedi tabella qui sopra), scrivono i magistrati, è: «Un’evasione notevolissima che, per quel che concerne il periodo residuo di causa, si aggira intorno agli importi indicati nei capi d’imputazione (17,5 mld di £ nel 2000, 6,6 mln di euro nel 2001, 4,9 mln di euro nel 2002 e 2,9 mln di euro nel 2003)». Il risparmio fiscale del gruppo si assesta dunque a circa 23,15 milioni di euro in tre anni. Tanto per dare un’idea, nel 2003 Mediaset Spa ha versato complessivamente 246,5 milioni all’erario, 135 milioni nel 2002. Recita ancora la sentenza: «Il sistema […] ha consentito a Mediaset di utilizzare nelle dichiarazioni dei redditi come costo deducibile gli importi riportati sulle fatture emesse da IMS che, a loro volta, recepivano gli importi risultanti dalle fatture emesse dalle società apparentemente venditrici di diritti». Un duplice guadagno per l’azionista Mediaset: abbassamento del tax rate da un lato – 36,5% nel 2003, seppure a scapito della cassa perché il riacquisto avveniva a un prezzo maggiorato del 7-8% soltanto nell’ultimo passaggio, da IMS a Mediaset – e maggiori introiti pubblicitari dall’altro. Tutto a svantaggio dell’Agenzia delle Entrate, costituitasi parte civile e destinataria, come sancito dalla sentenza di primo grado, di un provvisionale da 10 milioni di euro.

Però c’è un però. Oltre al danno reputazionale, qualora Berlusconi fosse condannato potrebbe scattare l’azione di responsabilità nei confronti dell’allora amministratore delegato, Giuliano Andreani (e/o del top management e/o dei sindaci) per gli anni relativi alla frode fiscale contestata. A sua volta, Andreani potrebbe denunciare l’azionista di maggioranza Silvio Berlusconi. Una situazione a dir poco paradossale, sulla carta non impossibile. 

Twitter: @antoniovanuzzo