Un magistrato che non cerca giustizia ma un colpevole, un uomo della legge che della legge fa uno strumento cupo che non interpreta la realtà, ma la piega. Un individuo che parla solo il linguaggio inquisitorio dei codici e quando perde questa facoltà diventa “el mudo”, il muto. Vedessero questo film, Berlusconi con falchi e pitonesse ne farebbero il simbolo della loro battaglia anti-giudici. Ma El mudo arriva dal Perù e non è sospettabile di alcuna tendenza neoforzitalica. Si limita a essere quel che è: un racconto filmico di grande sottigliezza, un apologo morale che ricorda il nostro Elio Petri, e che degnamente ha inaugurato il concorso internazionale del Festival del Film di Locarno.
Presentato dal nuovissimo direttore artistico, il torinese Carlo Chatrian, nelle vesti di cinefilissimo consumato Pippo Baudo multilingue al servizio dell’internazionale pubblico che affolla l’Auditorium Fevi, El mudo apre la gara di venti lungometraggi presentandosi con ottime qualità. I giovani fratelli Daniel e Diego Vega hanno già conquistato le vetrine europee in passato tra Locarno e Cannes e partono tra i favoriti. Naturalmente non solo per il curriculum autoriale ma soprattutto per la efficacia di questo lavoro.
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Il giudice penale Zegarra ha una forza espressiva straordinaria: associa a un distacco basato su una gelida interpretazione del proprio ruolo sociale una malinconia esistenziale ottimamente resa dal protagonista Fernando Bacilio. Automa meccanico di una spagnolesca burocrazia della giustizia, ne diventa a sua volta una vittima. In serie viene allontanato dal suo posto altolocato nella corte di Lima senza una motivazione apparente e subito dopo viene colpito da un proiettile vagante mentre sta tornando a casa in macchina dal lavoro. Due eventi non correlati ma che gli fanno pensare di essere vittima di una macchinazione: sul primo – il suo spostamento – nulla può, mentre sull’altro è deciso ad andare fino in fondo, a incastrare chi lo voleva morto: a trovare un colpevole, il suo colpevole, un colpevole qualsiasi, che paghi il fio di quella catena di ingiustizie che lo hanno danneggiato.
Gravemente colpito alle corde vocali, deve abituarsi a parlare con l’esofago. Per intanto se ne sta muto comunicando a gesti, e trovando uno sfogo alla propria grigia rabbia compressa nella morbidezza carnale della moglie e della sua vecchia collega amante, unici canali d’affetto in un mondo ostile a cui lui per primo è ostile: la lista dei sospettati, cioè di persone che potrebbero avercela con lui per vecchi processi, è lunga 800 nomi.
Nello sfascio della giustizia, con la polizia che non può lavorare perché senza fondi, Zegarra conduce una propria indagine parallela, convincendosi della colpevolezza di un uomo equivoco. Il quale però non sapremo mai se sia colpevole davvero perché preferisce il suicidio al fatto di finire nuovamente nel circuito penale, seppur solo da fermato.
Il caso è così risolto. Zegarra torna alle sue scartoffie, benché nell’ufficio secondario cui è stato destinato. Aspetta anche un figlio: un’altra gioia. E infatti è sull’allegra sarabanda di una festa che il film per contrasto finisce. I conti sono saldati, ma non può chiamarsi giustizia quella cosa amministrata da una magistratura che sembra un club privato, una riunione di famiglia, un ambito di confidenze riservate risolte sulla pelle degli altri, degli sconosciuti, degli inconsapevoli, dei non affiliati. Guardiamo Constantino Zegarra e pensiamo al Kafka che chiude Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri (peraltro entrambi i film si chiudono con una scena onirica): «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano». Amen.