Matteo Renzi, un americano a Firenze

Scelte decisive se vuole essere leader

George W. Bush non era un uomo di grande cultura, anzi secondo i suoi detrattori il presidente degli Stati Uniti era un texano ignorante, un cowboy, un bovaro laureato, e infatti, non per niente, alla Casa Bianca, e anche prima, si trovava circondato dei migliori intellettuali e scrittori di discorsi, e politologi, e professori, ed esperti di comunicazione offerti dal mercato. Negli anni duemila il neoconservatorismo, che è stato intelligenza e forte vento ideologico, si è rafforzato, è cresciuto e si è stretto attorno a quel presidente che forse orecchiava soltanto i neocon Paul Wolfowitz e Daniel Pipes, che probabilmente di libri nella sua vita ne aveva letti davvero pochi, ma che pure si faceva orientare e con successo da consiglieri quadrati come Donald Rumsfeld e dalle teorie dei grandi pensatoi d’America, l’American Enterprise Institute, il Project for the New American Century, e poi dalle riviste toste e colte come Commentary e Weekly Standard. E non c’è senatorone americano, candidato alla Casa bianca, governatore di stato, che non abbia attorno a sé una squadra di uomini pronti a spiegargli cosa leggere, cosa dire e soprattutto come dirlo. Per governare serve cultura e se uno la cultura non ce l’ha, deve almeno compensare con quella degli altri. Molti uomini politici di grande successo e di grande intuito, come Barack Obama e come Bill Clinton, forse non ce l’avrebbero mai fatta senza quei professionisti del pensiero e della propaganda che George Clooney ha raccontato in un bel film del 2011, le Idi di marzo. Il protagonista del film, il genio dell’immagine, si rivolge al suo assistito, al suo cliente, al politico dotato di fiuto, d’intelligenza, di spirito persino, ma non di cultura: «Svegliati cazzo, questo è un gioco duro, non perdona… non puoi sbagliare perchè sei fuori. Subito!».

Chissà se Matteo Renzi ha visto le Idi di marzo, probabilmente no. Dicono che quando frequentava l’oratorio degli scout nel Valdarno, da ragazzino, già allora era uno che «voleva fare tutto lui». Un tipo sveglio, dicono i suoi amici, uno di quelli che ti faceva pure divertire, un caposcout di quelli intelligenti, ma con un limite velenoso… «voleva fare tutto lui». E dunque Renzi era, ed è, un accentratore per diffidenza. Lo era allora quando indossava i pantaloncini da lupetto, e lo è oggi che a trentotto anni prova a scalare il partito democratico e nientemeno che Palazzo Chigi, la presidenza del consiglio dei ministri, il potere vero. L’uomo che vuole spazzare via la nomenclatura ex diessina, il giovane leader riformista che si ispira a Tony Blair, il ragazzo che vorrebbe fare il capo del governo di un paese grande e inguaiato come l’Italia non ha mai costruito attorno a sé una squadra di collaboratori all’altezza della sfida, ma al contrario, negli ultimi anni, ha allontanato con una certa sistematicità tutte le figure che, all’interno della sua corte, capaci o incapaci che fossero, dimostravano un eccesso d’indipendenza o che, forse, avevano il difetto di dirgli esattamente cosa pensavano.

Pippo Civati? Kaputt. Giorgio Gori? Kaputt. Giuliano Da Empoli? Kaputt. Lunga è la teoria di amici, consiglieri, professori, famigli, uomini di cultura, esperti d’immagine e colleghi che il giovane sindaco di Firenze, aspirante re d’Italia, ha messo da parte o in alcuni casi promosso per allontanarli (come il suo vecchio vicesindaco Dario Nardella, oggi deputato), confermando così quel suo carattere da fantuttone di cui si ricordano anche i vecchi amici degli scout. Con la differenza, ovvia, che comandare una squadriglia di lupetti, indicargli dove piantare una tenda canadese e dove accendere un fuoco da campo, non è la stessa cosa che governare l’Italia e riformare il sistema pensionistico o mettere mano alla riforma del mercato del lavoro. E dunque Renzi si scrive i discorsi da solo, trova da solo le sue citazioni, le immagini, le figure retoriche, le invenzioni linguistiche, scopre da solo quali sono i libri da leggere (pochini quelli che ha letto), studia da solo i complessi problemi di un paese strano come l’Italia. Ma l’effetto di questa ricercata solitudine, di questa orgogliosa autosufficienza di cui tanto si favoleggia a Firenze, è spesso drammatico, se non grottesco.

Renzi è uno di quelli che pronuncia “giunior” il latino junior, e il suo vocabolario è tutto un “network”, “family”, “cool”, “friendly”, “start up”, “nerd”, “geek”. I suoi orizzonti culturali sembrano essere i fumetti di Topolino e Calimero, «anche un governo guidato dal Pulcino Pio sarebbe capace di fare meglio di Berlusconi», ha detto una volta; e poi la televisione commerciale degli anni Ottanta, la banalità in centoquaranta caratteri di Twitter (“#Rivoluzionedigitale”, dice sempre), l’estroflessione un po’ burina di Facebook, Mike Buongiorno e Maria Defilippi, ma tutto compresso, banalizzato oltre il banale, malamente insaccato in un terribile involucro di provincialismo fiorentino, un po’ lampredotto un po’ Silicon Valley.

Nei sui tanti interventi pubblici sogna una politica in cui «è meglio essere leader che follower», e d’altra parte orecchia un po’ di Mark Zuckeberg e un po’ di Steve Jobs. Così come Totò era uomo di mondo perché aveva fatto il militare a Cuneo anche lui, di recente, a una festa del Pd, ha spiegato che il suo partito «deve diventare come Amazon». Giuliano Ferrara, che pure lo stima, ha detto che Renzi sembra afflitto da cacarella verbale. La sua è una scalata con mezzi casalinghi, tra la ribollita fiorentina e la mela morsicata della Apple, un’ascesa sempre più difficile, piena d’accidenti. L’idea del leader giovane, trentottenne riformista piace molto nell’Italia della gerontocrazia e degli antichi riflessi condizionati d’una sinistra polverosa e perdente. Ma se proprio non può leggersi qualche libro, almeno Renzi trovi qualcuno che li legga per lui.

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