Braccialetti, orologi, scarpe. Sono solo alcuni degli oggetti che, da semplici capi di abbigliamento possono trasformarsi sempre più di frequente in gadget ipertecnologici, col diffondersi di quello che gli esperti chiamano “wearable computing”, il Pc da indossare, di cui i Google Glasses, gli occhiali per la realtà aumentata di Google rappresentano forse l’esempio più noto. Dotati di chip, adoperati spesso in congiunzione con lo smartphone – con cui comunicano via cavo o wireless – accessori di uso comune assumono nuove funzioni.
Braccialetti come gli Up dell’azienda Jawbone (https://jawbone.com/up), o i Flex (http://www.fitbit.com/home) di Flitbit, ad esempio, monitorano gli spostamenti di chi li porta al polso, calcolando il numero di calorie spese, e confrontando i periodi di veglia e di sonno per fornire preziose indicazioni su come rendere il proprio stile di vita il più salutare possibile. Non si tratta di gadget riservati soltanto ai pochi nerd. Nel Regno Unito, fra i fan dei Jawbone Up figurano insospettabili come il Cancelliere dello Scacchiere (carica che corrisponde al nostro ministro del Tesoro) George Osborne e negli Stati Uniti, il nuovo amministratore delegato di Yahoo!, Marissa Mayer, ne ha fatti acquistare ben 11.000, da distribuire gratis a tutti gli impiegati.
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La diffusione di dispositivi di questo tipo non è una novità assoluta. Fin dal 2006, Nike produce la linea Nike+, scarpe e accessori di vario tipo dotati di chip wireless per misurare le prestazioni di chi fa sport, inviare i dati allo smartphone dell’utente, e gareggiare a distanza con altri appassionati similmente equipaggiati. Ma il mercato sembra ormai maturo per il salto di qualità: il wearable computing appare destinato a breve a uscire dal ristretto ambito dei gadget a sfondo sportivo e invadere ogni aspetto della nostra quotidianità. Con una crescita esponenziale. Secondo una stima della società di analisi Ims Research, si dovrebbe passare dai 14 milioni di dispositivi consegnati nel 2011 ai 171 milioni del 2016. Un’altra società, Abi Research, fa previsioni ancora più ottimistiche, valutando in 485 milioni di unità i gadget venduti entro il 2018. Per questo i grandi player si stanno attrezzando per entrare nel settore. Non solo Google, coi suoi avveniristici occhialini.
Anche Apple pare abbia in cantiere uno “smartwatch”, chiamato iWatch, che dovrebbe liberare i consumatori dalla tirannia di dover estrarre lo smartphone da qualche tasca o custodia. Mail e messaggi di Facebook sarebbero consultabili sull’orologio da polso. L’azienda di Cupertino, come d’abitudine, non si sbottona, sul lancio di nuovi prodotti, ma già nell’agosto di due anni orsono aveva depositato allo Us Patent & Trademark Office una domanda di brevetto per un oggetto che ricorda molto l’ipotetico iWatch. E nelle scorse settimane ha depositato intanto il marchio in varie nazioni. Non è dato conoscere la possibile data di immissione in commercio. Quello che è certo è che, se Apple non si sbriga, potrebbe trovare il mercato già parzialmente occupato. Pebble, un concept di orologio intelligente divenuto realtà grazie a un finanziamento di dieci milioni di dollari raccolto su Kickstarter, sta andando alla grande. E anche Samsung pare stia lavorando a un proprio smartwatch.
L’entrata in campo di un nome come quello di Cupertino potrebbe però contribuire enormemente a sdoganare il wearable computing presso il grande pubblico, liberandolo dalle diffidenze che ancora lo circondano. Dai braccialetti sarebbe poi un lampo passare ai vestiti intelligenti, come quelli prodotti dall’azienda londinese CuteCircuit (http://cutecircuit.com/cutecircuit-twitter-dress/), che fungono anche da telefonino, con la Sim nell’etichetta e l’antenna nascosta nel tessuto. O il Diffus Uv Dress, che misura la quantità di illuminazione disponibile, aprendo o chiudendo le proprie fibre di conseguenza, in modo da far ricevere a chi lo indossa sempre lo stesso ammontare di onde luminose. E poi, con un ulteriore salto culturale, arrivare ai gadget che non soltanto si indossano, ma si impiantano direttamente nel corpo. Prospettiva che non piace proprio a tutti. Negli Usa, sull’onda delle preoccupazioni legate all’arrivo dei Google Glasses – come la possibilità di essere fotografati e filmati da chi li porta senza potersene accorgere è una delle cose che suscita maggiore fastidio – è già nato il movimento Stop the Cyborgs (http://stopthecyborgs.org/) che non rigetta in toto l’avvento del wearable computing, ma preme affinché tale fenomeno venga regolato quanto prima. In primis, per evitare che i dati raccolti da tutti i tecno gadget di ultima generazione, dissimulati sotto le spoglie di oggetti apparentemente innocui come delle scarpe o un paio di occhiali, finiscano nelle mani sbagliate.
Twitter: @fede_guerrini