Alla guerra, alla guerra! Guerra in Siria, ma per cosa? Molti giornali avevano dato per scontata la partenza dell’attacco contro Damasco, mentre Barack Obama alla Casa Bianca dichiarava in realtà di “non aver ancora deciso”. Lo ripeteva così spesso da meritare anche un titolo sul giornale satirico “The Onion”, come se “riflettere” fosse una notizia. Più delle considerazioni militari, più della trafila burocratica dell’Onu, più della creazione di una nuova “Coalition of the Willing” di colore democratico, contava la domanda: alla guerra, ma per cosa?
A Obama serve di più la minaccia di attacco, che l’attacco stesso. La minaccia dell’attacco serve per far vedere alla Russia che, reinstallato un governo filo-occidentale al Cairo, l’Occidente ha più libertà di muoversi. La minaccia serve agli Usa per dimostrare che hanno dalla sua parte tutto il mondo arabo sunnita: oltre a qualche protesta formale o “espressione di parere contrario”, tutta quella parte di Medio Oriente che ruota attorno all’Arabia Saudita è con Washington. Dietro ai comunicati formali, a uso e consumo del popolo, le elite sunnite sono con l’America.
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Alla guerra, ma a che servirebbe? Non si sa che effetti avrebbe un attacco sull’apparato militare del clan degli Assad, e non si sa se riuscirebbe a limitare la sua capacità di impiegare armi chimiche. Non si sa neanche bene chi abbia usato le armi chimiche. I ribelli hanno fatto bene il loro dovere: su 27 siti per l’aviazione militare del regime, ne sono rimasti in piena attività appena sei. Per il resto, tutti gli attacchi che l’aviazione israeliana ha portato ad Assad nell’ultimo anno e mezzo (cinque o sei) non hanno sortito grandi risultati politici. Che senso avrebbero le bombe occidentali ora?
Anche perché non è un problema d’imbarazzo politico: gli Stati Uniti in Siria sono già in guerra. Come altro possiamo definire il piano accurato di finanziamento, addestramento, rifornimento e perfino coordinamento delle forze ribelli, orchestrato dalla Cia? Per molto meno nel 1973, quando scoprì che Nixon (per idea di Kissinger) riforniva Israele di armi, prese a inviare ancor più tonnellate di armi alla Siria, e il la Guerra dello Yom Kippur diventò il più cruento tra i conflitti arabo-israeliani. Che differenza c’è tra missili con la stella americana e il sostegno ai ribelli, se non il marketing diplomatico?
Forse gli Usa devono inviare un messaggio all’Iran? Forse esistono report d’intelligence più aggiornati, ma secondo l’Agenzia Atomica Internazionale il numero di centrifughe iraniane per l’arricchimento dell’uranio, custodite in un impianto sotterraneo, è fermo a 696 dal febbraio 2012. Ce ne sono altre 2.000 pronte a essere attivate – ma per qualche motivo sono ferme. Il livello d’arricchimento dell’uranio è poi del tipo necessario per scopi civili, e non sembra esserci alcuna intenzione di andare oltre.
Gli Usa sanno che, per come stanno procedendo le cose, tutto va per il verso giusto, senza necessità di forzare la mano. Il nemico Assad ha ricompattato il mondo sunnita anche militarmente: Arabia Saudita e Giordania, insieme ad americani, francesi e britannici, hanno messo in piedi in Giordania una struttura per l’addestramento delle forze ribelli. La Turchia ha capito che non è il caso di stare a sostenere forze jihadiste (peraltro anti-israeliane) nel quadrante, e sta controllando meglio le frontiere – a tanto è servito il terribile attentato di Reyhanli.
Alla fine è meglio una Siria con un diavolo noto come Assad, circondato però da una coalizione sunnita coesa. Servirebbe a contenere le influenze estremiste dentro e fuori la Siria. Nascerebbe un nuovo ordine militarizzato in Medio Oriente, senza vinti o vincitori, ma con gli stessi vinti e vincitori che esistevano prima delle rivolte arabe.
O forse, un vincitore c’è: Israele. Lo sostiene perfino Dominique Moisi dalle pagine di Project Syndicate: il Paese ebraico è diventato la chiave per una serie di alleanze nel mondo sunnita, con una centralità mai così pregnante. Si pensi all’importanza della cooperazione d’Israele con Giordania ed Egitto contro i rischi per la sicurezza territoriale, e contro l’espansione internazionale del conflitto siriano. Scrive Moisi che “il paradosso delle rivoluzioni arabe è che hanno contribuito all’integrazione d’Israele come partner strategico (per alcuni Paesi) nella regione. A questo punto, più vite sono state perse nella sola guerra civile siriana, che in tutti i conflitti arabo-israeliani combinati”.
Attaccherà Obama? Forse sì, ma solo – come si direbbe a Roma – per non farsi parlare appresso. Al massimo, saranno attacchi “alla Clinton”: da lontano, dalle navi, con razzi e poca voglia di metterci la faccia. Sarà – come dicevamo ieri – uno “strike riluttante”.
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