A volte basta una frase, un’espressione, uno sguardo, per capire le storture di un intero sistema. Dietro i proclami confindustriali, seppur leciti; oltre la prosopopea cripto-grillina dei piccoli imprenditori infuriati, seppur fondata, ci sono anche loro: quelli che sono a un passo dal baratro e non si arrendono. E magari, invece, dovrebbero.
Nel Nordest ci sono tante isole produttive, ma anche tante zattere alla deriva, piene di naufraghi, che mandano, invano, messaggi in bottiglia nel mare in tempesta della micro-economia. Questa l’amara sensazione che provo, una volta varcata la soglia di una piccola impresa cosmetica, nella provincia di Vicenza, di cui preferisco omettere il nome, per rispetto alla privacy di chi si trova davanti alla propria disfatta.
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Il socio più anziano scuote la testa per farmi capire che ormai è inutile lottare contro il mercato italiano e il cinismo delle banche, mentre quello più giovane insiste che «si può, anzi si deve andare avanti e aggredire nuovi mercati». La loro storia è un paradigma di chi resiste contro i mulini a vento, ma che con la crisi ha scoperto i propri limiti, per usare un eufemismo.
Nata nel 2002, la loro azienda produceva cosmetici e docce solari, per arrivare nel 2007 a un dignitoso fatturato di 11 milioni di euro. Finché la normativa europea sulle emissioni dei raggi ultravioletti non ha imposto una soglia oltre la quale l’abbronzatura artificiale diventava nociva. E così, nell’arco di 24 ore, gli ordini si sono fermati. I soci hanno tentato di diversificare il prodotto, cercato nuovi finanziamenti, contattato centri di ricerca e laboratori universitari, ricorrendo ad analisti dei nuovi mercati. E alla fine hanno deciso di tentare la strada delle creme sbiancanti, molto richieste nei paesi asiatici, che però, come hanno ammesso loro, non funzionavano.
Testardi, vanno avanti, a fatturato dimezzato. Imboccata una via sbagliata, prodotti non efficaci, riescono a trovare prodotti più innovativi, mi assicurano, che possono salvarli dalla bancarotta, ma ormai l’esposizione finanziaria è diventata eccessiva. «Avevamo otto banche che ci sostenevano e siamo rimasti con una», mi spiega uno dei soci. E per ricoprire le perdite, hanno investito i loro risparmi di 2 milioni di euro e licenziato un terzo del personale. Un laboratorio universitario li ha aiutati nella ricerca di nuovi prodotti e i soci riescono a sbarcare a Singapore, ma ormai è troppo tardi.
Nonostante la nuova rete di negozi, non più legati al consumo interno italiano, in cui hanno perso il passo, senza essere in grado di competere con la concorrenza, le banche non ci credono più. O non vogliono rischiare in un prodotto di nicchia, cosmetico, e vai a sapere se valido o meno, e chiedono loro di rientrare dai debiti. Finiti i risparmi, vendute le proprietà, ora i soci continuano a produrre cosmetici e a cercare di vendere lettini abbronzanti che, per le nuove tecnologie adottate, costano molto, troppo. Gli ordini arrivano, anche se a singhiozzo, ma ricoprire le perdite è ormai impossibile. «Ogni anno, pagati i debiti alle banche che rifiutano ogni proposta di rifinanziare il credito, abbiamo a disposizione 400mila euro per il costo dell’azienda, che non sono sufficienti a continuare a investire nella ricerca», affermano.
E così in questa piccola azienda si vede il prima e il dopo. Il prima della crisi, di una parte delle location della azienda, lussuosa, con arredamenti ben rifiniti, e il dopo, con reparti produttivi arredati in modo approssimativo. L’adesso di un socio anziano, che è pronto ad alzare bandiera bianca e l’adesso di un socio giovane, che mi mostra gli spray e prodotti «che potrebbero volare verso l’Asia», se solo lui potesse dare loro le ali. L’adesso della responsabile del marketing, che non vuole mollare la negoziazione delle banche e l’adesso, scritto sulla faccia del socio più anziano, che continua a scuotere la testa, forse perché si sa che quando è buio, è difficile distinguere le vacche magre da quelle grasse, ma quando la crisi illumina ogni cosa con la luce al neon, stare a galla, se non si è all’altezza delle sfide, è impossibile.
Certo, il settore cosmetico non è un emblema del cliché dell’eccellenza manifatturiera nordestina. Di piccole aziende così, però, ne ho viste molte, troppe, in questo viaggio, in ogni settore e distretto, dove i proprietari, per pudore, non parlano pubblicamente dei propri fallimenti, anche perché spesso nascondono anche investimenti e politiche sbagliate. E allora si allunga la lista delle domande, destinate a rimanere senza risposta, per ora.
Viene da pensare a quella esagitata, a tratti inquietante, assemblea, organizzata l’8 luglio, dalla Confederazione delle attività produttive, Confapri, per dare sfogo all’ira funesta dei piccoli imprenditori, quelli non ce la fanno a resistere. E allora evocano con livido rancore i forconi per la casta politica, improduttiva. Viene da chiedersi perché proprio qui, nel Nordest produttivo, facciamo-tutto-da-soli, nel resort di lusso di CastelBrando, abbarbicato sulle colline trevigiane, sia improvvisamente nata una rivolta fine a se stessa di imprenditori trevigiani e vicentini.
Capeggiati dal navigato e intraprendente fondatore di ConfApri, Massimo Colomban, ex paron di Permasteelisa, che, dopo aver costituito un esclusivo think tank con il guru pentastellato, Gianroberto Casaleggio – per creare un movimento imprenditoriale alternativo a quello tradizionale – ha fatto (e disfatto) la tela, come Penelope. E dopo aver intessuto una rete imprenditoriale, ha rotto il sodalizio con il M5s per scrivere la sua Carta di CastelBrando, che annuncia soluzioni certe per delle inezie, come il risanamento del bilancio dello Stato, il rilancio dell’economia e dell’occupazione. E ancora viene da chiedersi cosa ci abbiano guadagnato i 200 imprenditori presenti alla sua assemblea, infuriati, che invocavano forche caudine per tutti i politici, a rompere l’alleanza politica persino con l’emisfero grillino, dopo averlo votato, il M5s, alle elezioni politiche, come unica speranza di cambiamento. Per poi invece rimanere ancora più isolati nel loro esotico disprezzo verso chi non trasuda fatica e lavoro.
La crisi in Veneto è anche questo. Vedere imprese che resistono, ma non se ne capisce la ragione, e assistere a una pessima perfomance di una classe dirigente che grida contro la casta, ma non sa rappresentare se stessa. E, forse, è il caso di dirlo – vessazioni fiscali o meno, politiche industriali mancate o meno – assiste al suicidio assistito di piccole aziende di cui, forse, è corresponsabile.
Twitter: @GiudiciCristina