Uno Stato che ricorre a uno strumento d’urgenza come il decreto legge per garantire l’invulnerabilità delle donne nella vita familiare è uno Stato che dichiara, anche sul fronte penalistico, il proprio fallimento.
Il diritto penale è per eccellenza l’insieme di regole necessarie a garantire l’ordine pubblico e privato e a ristabilirlo una volta che viene infranto dai comportamenti altrui. Dello Stato, si direbbe che è il “core business”.
La violenza fino alla morte è lapallissianamente la minaccia più grave e spregevole che si possa immaginare, ancor più abietta se il contesto delittuoso racconta di una qualche intimità, corrente o passata che sia, tra vittima e autore, o di particolari condizioni di debolezza, anche solo psicologica e relazionale, della vittima nei confronti del reo.
Non è una questione di numeri: la violenza di genere nei contesti familiari è sempre terribile, quale che sia la sua diffusione. Che le notizie di cronaca nera per violenza domestica si susseguano a ritmo di rotativa non cambia un fatto: una morte violenta è sempre una morte violenta. L’ordine infranto prescinde dal profilo autoriale o da quello della vittima, se è vero che siamo tutti uguali in dignità e diritto alla vita.
Ciò che cambia sono le condizioni del delitto, i motivi che spingono a commetterlo, le modalità con cui viene esercitato. Tutte circostanze già note al diritto penale tra le aggravanti e le attenuanti dei reati.
Agire per motivi abietti o futili, adoperare sevizie o agire con crudeltà, approfittare di circostanze di tempo, luogo o persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, l’aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, compreso l’abuso di relazioni di coabitazione, sono condizioni già individuate dal codice penale come circostanze aggravanti. Parlare di femminicidio come di una sorta di nuova categoria di reato, seguendo la scia emotiva provocata inevitabilmente dalla riprovazione per fatti spregevoli, contribuisce a frammentare ulteriormente l’ordinamento giuridico. Siamo ormai all’ordinarietà dell’eccezione alla regola generale, senza determinanti effetti sull’inasprimento della pena data la possibilità già attuale di considerare come aggravanti circostanze che ben sembrano prestarsi a quelle ipotesi che rendono tanto più turpe l’uccisione di una donna in un contesto relazionale familiare.
Il decreto legge che la Camera ha furia di convertire non prevede solo l’inasprimento della pena in alcune circostanze specifiche, le quali potrebbero essere già considerate dal giudice in sede di calcolo della pena come aggravanti comuni (stato di gravidanza, relazione di coniugio o di coppia di fatto tra autore e vittima), ma introduce anche alcune regole per la persecuzione dei reati di maltrattamento in famiglia come la “costante informazione alle parti offese in ordine allo svolgimento dei relativi procedimenti penali” o la “possibilità di acquisire testimonianze con modalità protette” o “azioni di intervento multidisciplinari, a carattere trasversale, per prevenire il fenomeno, potenziare i centri antiviolenza e i servizi di assistenza, formare gli operatori”. Misure che, se si sente il bisogno di introdurle, segnalano che finora lo Stato, pure sempre affamato di nuove funzioni, non ha saputo adempiere al primo e più basilare dei suoi compiti. Forse perché, ancora prima di specifiche procedurali o cautelari, dovrebbe imparare a garantire l’efficacia e la certezza della persecuzione dei reati e dell’esecuzione della pena, con tempi e modalità tali da far sentire al sicuro ognuno di noi, a prescindere dal genere a cui si appartiene.
*Articolo originariamente pubblicato sul sito www.brunoleoni.it