Documenti, borse, gioielli, vestiti paillettati, cappelli, “ondulacapelli” e persino preservativi degli anni Venti e Trenta. Quando nel 2010 gli operai di una ditta edile trovarono questo tesoretto nell’intercapedine di una casa in demolizione di Casarsa (Pordenone), pensavano si trattasse solo di un cumulo di stracci. E invece quel fagotto di sacchi di iuta, residuo delle case di tolleranza della zona, nascondeva la storia delle prostitute italiane nel ventennio fascista. Tra ferree norme igienico-sanitarie, consigli di bellezza e regole di “ammissione” da rispettare.
A entrare in possesso dei materiali è stato Davide Scarpa, 44 anni, ex impiegato di un consorzio edile, oggi disoccupato. «Dopo la demolizione di una casa per costruire una strada, i muratori hanno trovato questo fagotto», racconta. «I documenti erano un po’ bruciacchiati, visto che in quel muro passavano i fumi di una stufa, e i sacchi di iuta erano ricoperti di sporcizia e umidità. Una persona che conoscevo mi ha contattato, sapendo della mia passione per le cose vecchie. Mi sono accordato con gli eredi della casa su una piccola cifra e ho comprato il materiale». Carte, registratori di cassa, farmaci, spazzole, risalenti al periodo tra il 1922 e il 1942, da recuperare e conservare con cura. Scarpa si è subito messo in contatto con un appassionato di storia della zona e ha restaurato tutto.
Del tesoretto, fanno parte i documenti con i nomi e i cognomi degli uomini che frequentavano le case di tolleranza, il diario di una prostituta, i vaccini e anche i cataloghi per ordinare vestiti e accessori da usare con i clienti. «Per spostare tutto ci vorrebbe un camion», commenta Scarpa, che ha letto e decifrato («perché la matita col tempo si è sbiadita») ogni singolo documento. E attraverso la pagina Facebook “Museo delle case di tolleranza nel Ventennio fascista” ha divulgato le fotografie di gran parte degli oggetti in suo possesso. Certo, dice, «ho evitato di pubblicare le cose più scabrose e i documenti con i nomi». E il suo museo virtuale ha ricevuto «mi piace da ogni parte del mondo, anche da New York». Museo virtuale, appunto, perché a fare una mostra Scarpa ci ha provato più di una volta, racconta. «Ma ogni volta, 15 giorni prima dell’inaugurazione, mi chiamano dicendo che il vescovo o il monsignore di turno è intervenuto e ha fatto saltare tutto. Perché i bambini potrebbero scandalizzarsi».
Il tesoretto oggi è conservato nella casa di Scarpa a Tamai. «Ci dormo praticamente sopra», scherza. Ma, dice, «chi vuole può venire a casa mia e farsi copia del materiale, perché la storia è di tutti. E le cose hanno un valore se vengono condivise. Sono documenti talmente incredibili che ti fanno fare subito un salto temporale nel passato».
Parlando con Scarpa, si scopre una nuova faccia dell’Italia fascista. L’Italia dai saldi valori morali che regolava per filo e per segno quello che oggi chiameremmo il mercato della prostituzione. Le donne iscritte al partito, ad esempio, avevano maggiore facilità d’accesso al mestiere. E dal 1938 la tessera divenne obbligatoria come per tutti gli altri lavori. Per esercitare bisognava poi «aver superato gli esami di abilitazione al regolare meretricio» e «dopo l’abilitazione c’era un severissimo tirocinio con tanto di apprendistato quasi gratuito in un locale di meretricio di Stato abilitato, in cui si mettevano alla prova le aspiranti al ruolo». Ogni venerdì, quando la casa di tolleranza era chiusa al pubblico, arrivava il prete per la confessione e la comunione. Chi volontariamente si sottraeva a questo “obbligo di brava cristiana” non solo veniva ammonita verbalmente, ma era anche segnalata dalla tenutaria per aver avuto un comportamento “non retto”.
Le norme igienico-sanitarie erano severissime: le donne venivano sottoposte alle visite mediche due volte alla settimana e «tutte possedevano un set per verificare la presenza di malattie veneree attraverso l’esame di una goccia di sangue».
Le case di tolleranza, poi, «erano anche un luogo dove molti andavano a prendere le medicine passate dal Duce o i disinfettanti contro i pidocchi, ed erano anche usate come vespasiani pubblici con bagni e acqua calda, a cui si poteva accedere pagando una piccola quota». Le prostitute, però, non potevano lasciare le strutture, perché «erano considerate donne che attentavano alla debolezza dell’uomo italiano». Solo alcune di loro uscivano, rischiando le manganellate, «per andare a esercitare a domicilio per gli invalidi di guerra o i disabili».
Tra le righe dei fogli scritti dalle prostitute, si leggono anche storie di sofferenza. Molte di loro erano donne abbandonate dai mariti, che facevano “il mestiere” perché costrette dalla povertà. «Alcune risultavano vedove anche se vedove non lo erano», racconta Scarpa. «Gli organi di partito avevano fatto sì che la persona non più reperibile, il marito, venisse dichiarata morta dopo 5 anni. Di modo che le mogli potessero esercitare la prostituzione, perché le donne sposate non potevano fare le prostitute. I figli invece venivano affidati agli istituti pubblici e una parte della retta era pagata dal Comune».
Di prostitute e clienti esisteva anche un censimento. «Su una popolazione di trenta milioni, gli italiani che andavano a prostitute erano 10 milioni, praticamente quasi tutti», racconta Scarpa. Poi arrivò la legge Merlin nel 1958, che chiuse le case di tolleranza, «eliminando la regolamentazione, ma non il problema». E a distanza di 70 anni, è cambiata la proporzione ma non i numeri: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 9 milioni di italiani vanno ancora a prostitute.