Molti hanno osservato che la sentenza della Cassazione condanna non solo Berlusconi, ma anche il Partito democratico, destinato alla deflagrazione. Può darsi che sia vero, anche se va detto che finora il Pd ha mostrato una disperata resistenza alle prospettive di scissione: per una ragione solo negativa, cioè che il suo problema non è la differenza delle visioni, ma la mancanza di visione.
Anche nel delicatissimo momento attuale, sembra che il rischio non sia tanto quello di lacerarsi su posizioni diverse, quanto quello di annegare nella irrilevanza. Nel confronto tra Berlusconi e Napolitano, il ruolo del Pd sembra assolutamente secondario. E del resto nessuna voce si è levata dal suo interno a dire qualcosa di interessante o di significativo, al di là delle osservazioni ovvie fatte da Epifani. Neanche quella di Renzi. Eppure il passaggio è epocale per il partito che è erede della vicenda postcomunista, non meno di quanto lo sia per Berlusconi. È sempre più evidente che la singolare carriera politica di quest’ultimo non è chiusa dalla sentenza, come sembrava il primo giorno. Ed è altrettanto evidente che la sentenza mette una pietra tombale sulle speranze che il Pd diventi un partito forte e autorevole.
Per essere forte, un partito deve anzitutto essere autonomo; e il Pd non lo è, soprattutto adesso. Il suo destino appare segnato da un legame di subalternità perfino oggettiva e inevitabile alla magistratura. Un legame stabilitosi nel periodo di Tangentopoli, quando il Pds diventò, inopinatamente, il principale beneficiario dello smottamento del sistema politico, ma pagò caro questo illusorio vantaggio: si venne a trovare in una situazione di ricattabilità, e quindi di subordinazione a strategie e obiettivi giustizialisti, perseguiti con grande clamore dalle forze politiche alla sua sinistra e dai media più influenti dell’area. La discesa in campo di Berlusconi e la sua forza politica ed elettorale fecero il resto.
Come convinta di non poter vincere su questo strano avversario, la sinistra democratica rinviò l’opera di autocostruzione e autochiarimento che era necessaria, per concentrarsi esclusivamente sulla battaglia contro Berlusconi. È chiaro che in questo quadro qualunque mezzo andava bene. L’alleanza con una sinistra conservatrice, che ha impedito per anni (e forse definitivamente) l’elaborazione di una identità compiutamente e creativamente postcomunista; la confusione e l’ambiguità sui propri obiettivi programmatici; e la vicinanza, anzi la subalternità a quelle aree politiche e culturali che affidavano alla magistratura, più che alla politica, il compito di fare pulizia e mettere ordine nel paese. Nel Pd e nei suoi predecessori è sempre stata largamente maggioritaria la posizione di chi, all’obiezione che Berlusconi bisognava sconfiggerlo politicamente e non per interposte sentenze, rispondeva che l’importante era sconfiggerlo, in qualunque modo. E quindi godeva dell’avviso di garanzia recapitato durante il vertice con Clinton, godeva della scoperta delle relazioni pericolose con escort e olgettine, non trovava niente di incivile nella diffusione di un moralismo peloso da parte di molti giornali.
Non c’è bisogno di dire che Berlusconi ha le sue colpe, molte e gravi: non solo le sue eleganti serate (comunque non adatte alla dignità di un uomo di stato), non solo la sua disinvoltura finanziaria, ma più ancora l’idea tenace, anche oggi ribadita, che sta alla base del suo rapporto con le istituzioni, cioè una concezione della sovranità popolare come unico fondamento della legittimità di quelle istituzioni, una concezione che è – paradossalmente – rousseauiana più che liberale. Una sinistra democratica e riformista, però, dovrebbe essere in grado di contrapporle una concezione autenticamente liberal-democratica, per la quale la sovranità popolare si esprime attraverso il delicato gioco degli equilibri istituzionali e attraverso un dibattito pubblico civile e rispettoso. Non dovrebbe contrapporle il potere giudiziario, il cui ruolo è importantissimo ma non va usato come una clava, né come un ombrello protettivo all’ombra del quale riparare le proprie debolezze.
Questa sentenza, così esplosiva, mette definitivamente sotto scacco il Pd, che non potrà mai più dimostrare di poter riportare su Berlusconi una vittoria politica, e quindi di essere qualcosa di più di un utilizzatore finale di una vicenda decisa altrove.
*tratto da Qdr, Qualcosa di Riformista, pubblicato il 6 agosto 2013