Siria, padre Dall’Oglio “ostaggio di fondamentalisti”

Il racconto di chi lo ha conosciuto

È arrivata la conferma del ministro degli Esteri Emma Bonino: «Il gesuita è nelle mani degli emuli di Al Qaeda, ma noi non ci diamo per vinti», insomma “Abuna” Paolo dall’Oglio, padre gesuita di 59 anni, è stato rapito. Un prete italiano che per molti, non solo in Italia, è diventato un simbolo della ricerca di pacificazione in Siria. In poco più di un anno, dopo che il regime di Assad lo ha cacciato dal paese, ha girato città e paesi, parlando di un conflitto civile sempre più lontano dalle televisioni e, per questo, spesso anche dall’attenzione degli occidentali. È difficile che chi ha assistito ad un suo intervento non ne ricordi la voce piena di passione e la retorica mai banale. Quando parlava del conflitto era in grado di fartelo “vedere” come se, come lui, anche tu ci fossi stato in mezzo. Ed è di questo che il conflitto in Siria ha bisogno più di ogni altra cosa: essere visto, ricordato, per non essere dimenticato.

Prima di essere rapito era tornato nella regione da alcuni mesi. Risiedeva in un monastero del Kurdistan iracheno, poco distante dalla Siria, che di fatto è diventata la sua patria anche più dell’Italia. Vi si era trasferito trent’anni fa, e, da bravo gesuita, non prima di una laurea e un dottorato in cultura e lingua islamica. Voleva rifondare il monastero di Mar Musa, uno dei più antichi della cristianità e abbandonato nell’Ottocento. In decenni di duro lavoro e dialogo con le comunità del paese ne ha fatto uno dei primi grandi centri di ecumenismo in Siria e in Medio Oriente, in un tempo in cui la parola “ecumenismo” era ancora per molti poco più che una voce sul dizionario.

Sono tanti i ragazzi italiani che sono passati per Damasco per studiare l’arabo o anche solo per visitare il paese (fra cui chi scrive). E quasi tutti siamo stati almeno una volta a Mar Musa. In cima al monte, a strapiombo sul deserto, immerso in un silenzio quasi innaturale, a Mar Musa si pregava in ginocchio, come i musulmani fanno ora e come facevano gli antichi cristiani, sotto affreschi del primo cristianesimo risalenti al Seicento dopo cristo; per molti Mar Musa valeva l’intero viaggio in Siria. “Abuna” Paolo l’abbiamo incontrato tutti là, che parlava a ognuno di coloro che visitavano il monastero in una lingua diversa, che scherzava coi bambini e coi ragazzi in perfetto dialetto siriano o che sfuriava con ospiti occidentali un po’ sbadati che sbagliavano a cucinare il pranzo comune.

Molti di noi erano partiti dall’Italia senza averne mai sentito parlare, ma ne erano venuti a conoscenza in Siria da amici e conoscenti locali. È famoso Padre Paolo, forse un rappresentante molto più efficiente ed efficace della cultura e del popolo italiano in Siria rispetto a qualsiasi altra rappresentanza ufficiale. È famoso soprattutto fra la comunità cristiana siriana, ma anche molto amato e rispettato fra i musulmani, in quella che è la grande tradizione islamica del rispetto verso l’”uomo di Dio”, che è tale a prescindere dalla religione a cui appartiene. Quando la ribellione è scoppiata nel 2011 credo che, come me, pochi si siano sorpresi di vederlo in un video mentre spiegava in arabo perché aveva deciso di schierarsi con i ribelli. Nel farlo si era inimicato anche un parte della comunità cristiana fedele al regime, e dopo pochi mesi la sua scelta gli era costata anche l’espulsione dalla sua seconda patria.
Padre Paolo non è il primo prete cristiano ad essere rapito in Siria da gruppi vicini ad al-Qaeda. Alcuni mesi fa è stata la volta di due sacerdoti ortodossi rapiti ad Aleppo, sembra, da alcune bande di ribelli fondamentalisti giunti in Siria dalla Cecenia

Gruppi fondamentalisti ceceni ad Aleppo… Sembra incredibilmente surreale e contorto per chi conosce il paese. È che la Siria, per certi versi, non è più la Siria che conoscevamo; sfigurata dai tanti, troppi, interessi stranieri di ogni tipo e importanza che l’hanno posta in balia di eventi le cui logiche sfuggono da quella semplice e legittima che dovrebbe essere la ribellione di un popolo contro il suo dittatore. Padre Paolo se ne accorgeva, e nei mesi prima di partire ne ha parlato parecchie volte nei suoi interventi. Lo sapeva, e forse anche per questo ci è ritornato, per dare il suo contributo e cercare di arginare certe derive. Lui che il paese lo conosce più di molti siriani, e non solo geograficamente. Ne conosce profondamente la cultura presente e quella antica, e ha saputo vivere la realtà di comunità assai diverse, in qualche modo innamorandosi dell’anima stessa del paese.

Si definisce un prete cattolico innamorato dell’Islam. E sono sicuro che oggi e in questi giorni ci saranno molti che pregheranno per la sua sorte. Lo faranno in arabo, in italiano, in francese in molte altre lingue. Lo faranno prima e dopo il digiuno di Ramadam o davanti all’altare di un Chiesa cristiana. E oltre che per “Abuna” Paolo, pregheranno perché la Siria non perda un altro tassello della sua anima.  

Twitter: @Ibn_Trovarelli

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