Okay, è buonista. Di quel buonismo dilagante che nella realtà non potrebbe mai essere vero (ahinoi). Okay, è impegnata politicamente e civilmente, emana e diffonde una dedizione professionale che nel mondo del giornalismo (vero) e della politica (vera) difficilmente riusciamo ancora a incontrare (ahinoi). Se cercate la realtà in termini di comportamento e atteggiamento, di ideali e convinzioni, The Newsroom non fa per voi.
Diciamocelo, il mondo (specie ai vertici) è composto da affaristi, calcolatori e non da “civilizzatori” stile l’anchorman Will McAvoy. Ma in tutto il resto la serie scritta da quel grande genio di Aaron Sorkin (già dietro a una perla seriale come The West Wing) è reale. È storia.
The Newsroom, dopo averci fatto guardare con occhio critico alcuni eventi del 2010, quest’anno ci trascina nel 2011. L’obiettivo è lo stesso, ovvero raccontare alcuni particolari eventi storici dal dietro le quinte di una redazione televisiva. Come il movimento di “Occupy Wall Street”, ignorato inizialmente dai media. Come la commemorazione per il decennale dell’11 settembre. Come la guerra civile libica, scatenata dall’effetto domino delle rivolte dei paesi adiacenti. A legare i diversi episodi di questa seconda stagione (attualmente in onda negli States) c’è poi una vicenda extratemporale a cui è stato dato il nome fittizio di Operazione Genova. Non si tratta nemmeno in questo caso di finzione, quanto piuttosto di una trasposizione nei giorni moderni di una vicenda che ha coinvolto la Cnn negli anni Novanta, ovvero la diffusione della notizia che durante un’incursione segreta in Laos (Operation Tailwind) gli americani avessero fatto uso di gas nervino. Un granchio di dimensioni incredibili.
The Newsroom alterna lezioni di storia a lezioni di giornalismo: se da un lato ripercorriamo tappe importanti a livello mondiale, dall’altro assistiamo ai tentativi di distruggere un sistema informativo troppo appiattito sulle dichiarazioni degli uffici stampa e poco incline a fare le domande scomode (la permanenza di Jim sul bus della campagna di Romney, al proposito, è significativa). È una serie che vive di potenziale, di ciò che poteva essere e che non è stato, di ciò che potrebbe essere ma che non sarà. È macchiata di indelebile amarezza, ma al tempo stesso intrisa di incoraggiante ottimismo. Sappiamo da subito che non sarà così. Ma che c’è di male, ogni tanto, nel sognare un mondo migliore? Un mondo se vogliamo brutale e diretto. Ma onesto, come Will in quel drammatico assolo che ha aperto la prima stagione e che si è guadagnato il diritto di entrare tra i miglior monologhi mai visti in televisione.