A Bruxelles l’Italia torna osservato speciale

Crisi politica e di fiducia in Europa

BRUXELLES – Dal podio della sala stampa del Berlaymont, lo storico palazzo sede degli uffici centrali della Commissione Europea a Bruxelles, i portavoce si affannano a spargere tranquillità sul caso Italia. «Non ci sono sentimenti di inquietudine o di paura in seno alla Commissione», assicura con perfetto aplomb da eurofunzionario Olivier Bailly, uno dei portavoce dell’esecutivo comunitario. In realtà, dietro l’ufficialità, la preoccupazione e anzi l’irritazione ci sono eccome. Lo lascia trapelare lo stesso Bailly, quando afferma che la Commissione «segue l’evoluzione del dibattito politico in Italia. Siamo fiduciosi nella 
democrazia italiana e nei partiti, che sapranno dar prova di 
responsabilità. I partiti sono responsabili di fronte ai cittadini che li hanno eletti». 


È il solito modo di Bruxelles di lanciare moniti travestiti da parole positive, a cominciare dal famoso «siamo fiduciosi». La verità è che da qualche tempo sono sparite le lodi per il «percorso» di riforma intrapreso dall’Italia, o i riferimenti ai «grandi progressi» del Belpaese, come ai tempi di Mario Monti. Tra i più irritati – e lo nasconde sempre meno – è il commissario agli Affari economici Olli Rehn. Ai tempi, aveva sperato in una conferma di Mario Monti a Palazzo Chigi, non è mai stato un grande fan di Silvio Berlusconi e ha avuto qualche tentennamento quando si è trovato a chiudere la procedura per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia alla primavera scorsa, con il governo delle “larghe intese” già insediato – mentre l’avrebbe fatto a occhi chiusi con Monti premier. Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni dovettero fornire varie assicurazioni e garanzie – tra cui la famosa clausola di salvaguardia da far scattare in caso di rischio sforamento del deficit oltre il 3% del pil – perché la Commissione proponesse (ottenendola) al Consiglio Ecofin la chiusura della procedura.

Rehn ci ha messo la faccia, ed è molto seccato e preoccupato per la possibilità che, se salta Letta, l’Italia deragli con buona pace degli impegni su cui si era basata proprio la raccomandazione di chiudere la procedura. Si sa che in seno al Consiglio Ue alcuni dei falchi del Nord Europa (non la Germania) avevano storto il naso all’idea di togliere l’Italia dalla procedura, e avrebbero preferito aspettare di vedere che succedeva con il nuovo governo. Se saltasse fuori che avevano ragione loro, per il finlandese sarebbe una figuraccia. Non stupisce che negli ultimi tempi è praticamente impossibile estorcere al commissario una parola positiva (tranne il solito, minaccioso «sono fiducioso») sull’Italia – ad eccezione delle lodi per la decisione di ripagare i debiti con le imprese della pubblica amministrazione. Decisione che fu presa da Mario Monti.

I moniti si fanno sempre più espliciti e pesanti. Rehn come i suoi servizi fanno sapere che tutti i fari sono puntati sull’Italia, e che non intendono fare sconti di sorta. E soprattutto, il commissario e i suoi portavoce adesso ripetono come un mantra: l’Italia ha urgente bisogno di stabilità politica per poter ritrovare la crescita, perché senza stabilità è difficile ritrovare la fiducia degli investitori ed effettuare le riforme del caso. Dietro la copertura dell’anonimato, al Berlaymont lamentano la lentezze dell’attuazione delle urgenti riforme strutturali, i tempi eccessivi per discutere di Imu e Iva, il fatto che non sia stato ancora messo mano al miglioramento della pubblica amministrazione e della macchina giudiziaria. «C’è ancora tantissimo da fare» ribadisce Bruxelles di continuo.

Una cosa è chiara: la Commissione, ma soprattutto il commissario finlandese e i suoi servizi, si fidano sempre meno – e ogni nuovo «siamo fiduciosi» rivela in realtà un avvertimento a Roma a non fare scherzi. Una grave crisi politica italiana con le probabili ripercussioni sui mercati è proprio l’ultima cosa che Bruxelles vuole in un momento in cui si vedono i primi, teneri virgulti di una ripresa economica nell’eurozona.

Nel mirino è anche la questione dell’abolizione dell’Imu sulla prima casa. Discretamente Bruxelles aveva cercato di dissuadere il governo Letta dalla totale eliminazione, del resto le raccomandazioni paese pubblicate lo scorso luglio indicano caldamente all’Italia di spostare l’onere fiscale dal lavoro e dalle imprese verso elementi «statistici», «non produttivi», a cominciare proprio dalle proprietà. L’aut–aut berlusconiano ha costretto l’esecutivo a tapparsi gli orecchi, adesso Rehn però avverte: la nuova service tax che dovrà entrare in vigore il prossimo anno in sostituzione parziale del mancato gettito dell’Imu sarà «analizzata con grande attenzione». E ricorda che «il rispetto della soglia del 3% è responsabilità del governo». Rispetto, avverte Bruxelles, che è la condizione imprescindibile per restare fuori procedura – visto oltretutto il pesantissimo debito pubblico italiano.

Non a caso questo lunedì proprio da Bruxelles Enrico Letta, in un’ora e mezzo di colloquio con il presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy, si è affannato a sottolineare che la legge di stabilità ribadirà con forza l’impegno a restare sotto il 3%. Certo è Rehn e i suoi avvertono: entro ottobre stabiliremo se l’Italia rispetto il Patto di stabilità e le raccomandazioni paese. E sempre a ottobre, del resto, l’Italia dovrà presentare a Bruxelles la bozza dell’ex finanziaria, in virtù della nuova governance economica europea appena entrata in vigore. Se l’Italia avrà “tradito”, la Commissione ci farà pagare, con tutti gli interessi, il conto. E sarà salato. A meno che la «fiducia» nella «responsabilità» dei partiti si riveli, a sorpresa, ben riposta.

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