Barattiamo le armi chimiche con la vittoria di Assad?

Fondamentale il ruolo dell’Iran

L’accordo sulle armi chimiche siriane conviene a tutti tranne che ai ribelli. Conviene agli Stati Uniti, che salvano la faccia e possono rivendicare un successo internazionale. Conviene a Israele, che – nel medio periodo – vede ridursi la minaccia di un attacco con armi di distruzione di massa. Per lo stesso motivo conviene agli Stati sunniti della regione in competizione con Damasco. Conviene ad Assad, a cui le armi chimiche nella guerra civile servono poco – vista la superiorità bellica del regime grazie alle sole armi convenzionali – e che vede allontanarsi la prospettiva di uno strike occidentale. Conviene alla Russia, che guadagna tempo all’alleato siriano e si ritaglia un ruolo internazionale, e nel breve termine conviene all’Iran.

La Repubblica Islamica ha giocato un ruolo centrale nel raggiungimento dell’accordo. Più ancora di Mosca, Teheran gioca un ruolo fondamentale per la sopravvivenza della dittatura di Assad. Contribuisce in modo determinante ai 500 milioni di dollari mensili che, per stessa ammissione del regime, affluiscono a Damasco. È lo Stato più importante del così detto “asse sciita” – che comprende la Siria, l’Hezbollah libanese e, in parte, l’Iraq – e quello che ha più da perdere da una caduta di Assad. Inoltre partecipa militarmente in modo determinante al conflitto in corso. La Quds Force, l’unità speciale dei Pasdaran incaricata di diffondere la rivoluzione iraniana nel mondo e che risponde direttamente all’Ayatollah Khamenei, è da mesi operativa in Siria e ultimamente sta assumendo ruoli di sempre maggior rilievo.

Al di là della retorica per cui, essendo gli iraniani stati vittime di armi chimiche nel conflitto con l’Iraq, avrebbero una sensibilità particolare al tema, Teheran evitando un attacco ha protetto i propri interessi economici e strategici. Non solo. «Lo scopo principale della teocrazia iraniana è sopravvivere», spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di storia e istituzioni dei Paesi islamici alla facoltà di scienze politiche all’Università di Genova. «Per farlo deve allentare la pressione internazionale sul tema del nucleare. Accreditarsi come un interlocutore responsabile è una prima azione indispensabile. In fondo il governo Rohani – con Javad Zarif ministro degli esteri – è stato “creato” dal regime per questo. Ma più nel lungo termine Teheran dovrà negoziare un compromesso storico con gli Stati Uniti e dentro potrebbe anche finirci la testa di Assad».

Lo scarto nel giudizio sulle mosse dell’Iran, a seconda che si usi il criterio del breve o del lungo periodo, è molto forte. Nell’immediato aver evitato un attacco e aver allungato la vita al regime di Assad – che nello scontro coi ribelli ne uscirà probabilmente rafforzato – è stato un successo. Ma il prezzo pagato, specie in prospettiva, è stato alto. Se l’accordo sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano fosse efficace potrebbe costituire un precedente internazionale applicabile anche al nucleare iraniano. «Con la diplomazia – prosegue il dottor Pejman – l’Occidente sta provando a logorare il regime teocratico, come già ai tempi dell’Unione Sovietica. L’Iran potrebbe avvicinarsi troppo e finire in un “abbraccio mortale” degli Stati Uniti. Ma a Teheran hanno dimostrato di non essere ingenui e la presidenza Rohani è già una contromisura. Fingerà di essere una specie di nuovo Gorbacev mediorientale, ma in realtà non cambierà nulla e guadagnerà solo tempo».

L’indebolimento del regime degli Ayatollah non è solo diplomatico. Da un punto di vista militare-strategico l’esistenza di un arsenale chimico – secondo il parere degli esperti di intelligence – si giustifica soprattutto in funzione anti-israeliana. La differenza di potenziale bellico tra l’esercito israeliano e quello di un qualsiasi altro Stato della regione è incolmabile. Puntare su armi di distruzione di massa permette sia di avere un deterrente in ottica difensiva, sia una possibile minaccia da poter agitare. Il fatto che la Siria, alleata di ferro dell’Iran, stia rinunciando a questa opzione è di fatto un indebolimento dell’asse sciita.

«Damasco e i suoi alleati non avevano alternative – dice ancora Pejman – che giocare questa carta. Di fronte alla possibilità di un attacco americano era l’unica. Per Teheran si tratta comunque del meno peggio: nel lungo termine ci saranno degli svantaggi ma nel breve è assicurata la sopravvivenza». Quanto all’affidabilità di Damasco nel processo di smaltimento (vista l’importanza strategica) delle armi chimiche, «ovviamente Assad proverà a salvare il salvabile e ad allungare i tempi, ma credo che saranno costretti ad essere trasparenti dalla pressione internazionale».

Prima che nuovi rapporti di forza e nuovi attori determinino nuovi scenari, nel presente potrebbe esserci una schiarita. Le aperture iraniane potrebbero essere accolte dall’amministrazione americana e i contatti diplomatici – al di là delle periodiche dichiarazioni pubbliche bellicose dell’uno o dell’altro – intensificarsi. «Secondo me – conclude il dottor Pejman – assisteremo ad una brevissima luna di miele tra Obama e Rohani, magari dopo l’arrivo di quest’ultimo a New York per la prossima riunione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite».

Ha salvato la faccia ad Obama, ha indebolito nel lungo termine i nemici di Israele e Stati Uniti, ha dato prestigio alla Russia, ha accreditato l’Iran come attore internazionale, ha allungato la vita al regime di Assad garantendogli spazio di manovra finché usa le armi convenzionali (responsabili del 99% delle vittime della guerra civile): l’accordo sulle armi chimiche siriane conviene a tutti. Tranne che ai ribelli.

Twitter: @TommasoCanetta

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