IL CAIRO – Tahrir è chiusa: i militari ne occupano gli ingressi, la fermata della metro Sadat, che conduce alla piazza, è bloccata. E questo fa una certa impressione per chi crede che Tahrir rappresenti il simbolo delle rivolte del 25 gennaio 2011 in Egitto. Percorrendo il ponte 6 ottobre un gruppo di operai è impegnato a saldare i blocchi di ferro dei parapetti della tangenziale, divelti dai manifestanti in fuga dallo sgombero di Rabaa del 14 agosto scorso. Fervono i lavori per risistemare i marciapiedi di via Nasser, mentre i segni di incendi e devastazioni sono stati cancellati a tempo record. Sembra che il massacro di Rabaa non sia mai esistito, la televisione pubblica non fa riferimento mai alla strage. Siamo ritornati all’11 febbraio 2011, quando Mubarak era appena uscito dal palazzo presidenziale. Proprio questo è successo il 22 agosto scorso: una giornata di festa per i nostalgici pro-Mubarak, un incubo per l’Egitto dopo che la procura ha disposto la scarcerazione del rais.
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La storia di Habiba: «martire» di Rabaa el-Adaweya
C’è una casa moderna e ben arredata nel quartiere residenziale di Medinat Nassr al Cairo, a due passi dal sit-in di Rabaa al Adaweya, sgomberato con un bagno di sangue lo scorso 14 agosto. Qui vive la famiglia di Habiba Abdel Aziz, una delle giovani «martiri» di Rabaa, responsabile del centro stampa della Fratellanza, fotografa e reporter volontaria per Al-Jazeera. Ci accolgono la madre Sabrin e le sorelle Arwa e Yara. «È in paradiso», sorride Sabrin, avvolta in un velo bianco e con uno sguardo estatico. «Ad Habiba piaceva la verità, per questo non andava bene in storia perché criticava la versione classica propinata dai libri», comincia il padre. Ahmed è un giornalista e un fumettista, ci mostra alcune sue caricature che raffigurano il generale Sisi con le mani insanguinate. Sabrin e la sorella Yara si tengono per mano e quest’ultima piange. «Abbiamo vissuto in Pakistan e Afghanistan per tanti anni. Habiba è stata a Islamabad con me, lì ha iniziato a scrivere per un giornale afghano. In quegli anni tra Peshawar e Islmabad ha cominciato a partecipare ai funerali dei martiri», ci racconta il padre molto provato.
Un’immagine di Habiba dentro il sit-in di Rabaa, dove stava girando filmati per un documentario sulla protesta
La madre Sabrin incalza ed è un fiume in piena, sembra molto fiera di sua figlia. Le due sorelle sono entrambe studentesse dell’Università americana del Cairo e parlano un inglese perfetto. «Ha iniziato il suo impegno politico, lavorando con Moneim Abdul Fotuh (islamista moderato, ndr) in campagna elettorale», spiega Sabrin. Ma il suo sostegno per i Fratelli musulmani si è andato definendo solo con le elezioni presidenziali. «Ci diceva: “Se bisogna scegliere tra Morsi e Shafiq io sono senza dubbio con il primo”».
Habiba, racconta la madre, ha scelto di schierarsi con Tyar Masri, il movimento che raccoglie i giovani tra i Fratelli musulmani. «Habiba aveva ben chiaro in mente che l’intervento militare che ha deposto Morsi il 3 luglio scorso fosse un colpo di stato militare che ha cancellato la volontà elettorale del popolo», aggiunge concitata Sabrin che inizia a drammatizzare la vita di sua figlia pur mantenendo un volto sereno, quasi felice per la sua morte.
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Lo sgombero e i cecchini
Il fervore di Habiba per i Fratelli musulmani si è rafforzato con la campagna per l’approvazione della Costituzione nel dicembre scorso e in opposizione alla campagna di raccolta firme per chiedere le dimissioni dell’ex presidente dei Tamarrod. «Era completamente contraria all’atteggiamento di quel gruppo», commenta la sorella Yara che dice di non interessarsi alla politica.
La mattina dello sgombero, lo scorso 14 agosto, la madre di Habiba era negli Emirati. «Mi arrivavano delle notizie poco confortanti. La notte precedente Habiba mi aveva scritto su Facebook dicendomi che aveva celebrato insieme agli altri ragazzi di Rabaa la morte di alcuni martiri, e che aveva pianto». Mostra gli abiti insanguinati della figlia: un vestito tipo jeans, una camicia con i fori di entrata e uscita dei proiettili, un velo bianco con una macchia di sangue. «Non li laverò mai», assicura Sabrin.
Habiba aveva inviato un ultimo messaggio alla madre alle 3 di notte, dicendole di essere calma e felice perché presto sarebbe stata anche lei una «martire». Più tardi una sua amica ha raccontato di vedere un cecchino dall’altro lato della strada che fissava lei e Habiba. A quel punto la giovane non ha più risposto al cellulare. È stata la voce di un’altra ragazza, amica di Habiba, a dare la notizia a Sabrin.
Il funerale dell’attivista islamista, nel villaggio originario di Babel, si è trasformato in una manifestazione di protesta. Tutti gridavano «Abbasso il governo militare».
Alcune immagini satiriche disegnate dal padre di Habiba e pubblicate sulla sua pagina Facebook. Raccontano l’Egitto e la sua storia
Habiba è una delle 700 le vittime delle violenze del 14 agosto scorso: la più grande strage avvenuta in un solo giorno dall’inizio delle rivolte nel gennaio 2011. I martiri sono generalmente uomini e donne di classe media, spesso provenienti dalle province di Sharqeya e Daqleya, dove la base elettorale della Fratellanza è più forte. Molti di loro hanno lasciato intere famiglie senza una speranza e bambini senza genitori, come Mariam e Nadia a Maadi.
Mentre i media egiziani dimenticano la strage di Rabaa, i Fratelli musulmani attraversano il momento più critico della loro storia, nononstante siano l’unica alternativa al nazionalismo dei militari, alleati con giudici, polizia, giornalisti e burocrati. Con la sovrapposizione completa tra potere politico e militare sancita dal colpo di stato del 3 luglio scorso da parte del generale Sisi, gli islamisti hanno subito dei danni tragici e nessuno tra i loro sostenitori ha più voglia di sangue. Tutti i principali leader della Fratellanza sono in prigione, almeno 75 secondo la stampa locale, mentre Gehad al-Haddad e Essam El-Arian sono ricercati. Non solo. Diecimila attivisti islamisti mancano all’appello, la maggior parte di loro sono in carcere, in isolamento senza accuse precise. E la bozza di Costituzione approvata dalla Commissione tecnica ha stravolto l’impianto della Carta, voluta dagli islamisti, cancellando con ogni probabilità la formazione di partiti basati sulla religione. Il sangue versato brucia ancora.