Caos in Libia un anno dopo l’attentato contro gli Usa

L’assalto al consolato di Bengasi

Chiacchierava indisturbato con l’inviato del New York Times, mentre ordinava succo di mango nel bar di un albergo di lusso, Ahmed Abu Khattala, il principale sospettato dell’attacco al consolato americano di Bengasi, in cui, esattamente un anno fa, morirono l’ambasciatore in Libia, Christopher Stevens, e altri tre connazionali. Accadeva un mese dopo l’assalto, quando già molti indizi pendevano verso di lui, ma anche oggi Khattala può sorseggiare indisturbato succhi di frutta, perché la Libia continua a bloccare ogni richiesta degli Stati Uniti di farsi consegnare i presunti attentatori.

All’indomani dell’azione contro la residenza diplomatica – pianificata da tempo ed erroneamente considerata, in prima battuta, una manifestazione spontanea in reazione a un video anti-islamico – Barack Obama aveva promesso di portare alla sbarra i responsabili. Dodici mesi dopo, Bengasi non rappresenta solo un ulteriore argomento nell’arsenale retorico dei repubblicani, nonché la principale macchia di Hillary Clinton nella probabile corsa alle presidenziali 2016. È anche la cartina di tornasole del processo democratico libico, arenatosi di fronte a una evidente fatica di Sisifo, il tentativo di costruire un moderno Stato di diritto. Né Bengasi né il resto della Libia orientale sono sotto il pieno controllo del governo centrale, e per Tripoli è un’impresa ardua arrestare Khattala e i suoi miliziani, per i quali gli Stati Uniti hanno emesso un mandato di cattura con l’accusa di omicidio L’intelligence di Washington sa dove si potrebbero nascondere i ricercati e il Pentagono ha elaborato un piano di azione per un eventuale prova di forza.

Gli interrogativi, però, sono molteplici. Anzitutto, chi dovrebbe giudicare i presunti assassini, se la Libia o gli Stati Uniti. E, nel caso in cui prevalesse la seconda opzione, come dovrebbero essere considerati i sospetti, se semplici civili o “nemici combattenti”, secondo la famigerata definizione applicata ai prigionieri di Guantanamo. Alcuni membri dell’amministrazione Obama propendono per un processo gestito dai libici, perché vogliono evitare l’accusa di avere violato la sovranità giuridica di un altro Paese. Ma allo stato attuale un procedimento del genere è da escludere, perché mancano le condizioni di base.

Le stesse indagini dell’Fbi hanno incontrato parecchi ostacoli, data la riluttanza di molti ufficiali governativi a perseguire un gruppo islamista coinvolto nell’attacco, Ansar al-Shariah. D’altronde, l’eredità della guerra contro Gheddafi è ancora forte. Un buon numero di soldati ha combattuto al fianco di questa brigata per spodestare il Colonnello ed è improbabile ritrovarli in prima fila nella caccia agli ex alleati. Gli Stati Uniti non escludono un blitz per arrestare i sospetti. Da mesi un drone americano, non armato, sorvola la capitale della Cirenaica per raccogliere informazioni e monitorare gli spostamenti degli islamisti. I rischi di un’operazione del genere, però, sono elevati, perché un atto unilaterale scatenerebbe senza dubbio reazioni incontrollate e né il debole esercito libico, né l’altrettanto fragile polizia, sono in grado di garantire l’ordine pubblico.

Il consulato Usa a Bengasi dopo l’attacco del 2012

La curva di rapimenti, furti, rapine è in ascesa, le armi circolano con grande facilità, anche perché i confini del Paese, soprattutto quelli con Niger e Ciad, sono molto porosi. Rispetto all’immediato dopoguerra, lo scenario non è mutato e la sicurezza resta nelle mani delle milizie private. Il governo sta cercando di portare sotto il suo controllo alcune brigate, pagando un salario di 5.700 dollari all’anno. Formalmente sia il Supreme Security Committee che la Libya Shield Force, due organizzazioni di miliziani, rispondono all’esecutivo rispettivamente al Ministero dell’Interno e a quello della Difesa – ma in realtà godono di grande autonomia. Fatto simbolico, non indossano le uniformi governative, ma quelle da loro stessi fabbricate.

La mancanza delle condizioni minime di sicurezza si ripercuote sull’economia e negli ultimi mesi ha fortemente danneggiato la produzione petrolifera, che pure era rapidamente tornata ai livelli pre-guerra, 1,6 milioni di barili al giorno. Gli ultimi dati, forniti dal premier Ali Zaidan, sono sconcertanti. Gli scioperi, diffusi a macchia d’olio, e il blocco dei terminal da parte delle milizie hanno fatto crollare a 150.000 barili giornalieri l’output di oro nero, da cui dipende quasi integralmente l’economia nazionale. Secondo Tripoli, le perdite ammonterebbero a 5 miliardi di dollari. Probabilmente si tratta di cifre un po’ gonfiate, ma l’energia scarseggia e i blackout sono all’ordine del giorno.

La Libia non può permettersi di pensare ad altro, ragione per cui il dossier siriano non appassiona affatto. Nella posizione del ministro degli Esteri, Mohamed Abdulaziz, non c’è traccia di riconoscenza verso gli Stati Uniti che – seppure from behind, come scrisse con una fortuna espressione il giornalista del New Yorker Ryan Lizza hanno condotto la campagna aerea conclusasi con la caduta di Gheddafi. All’interno della Lega Araba la Libia si è battuta, assieme all’Egitto, e in antitesi all’Arabia Saudita, perché la posizione dell’organizzazione fosse più ambigua e non contenesse l’esplicita adesione all’intervento prospettato da Obama contro il regime di Assad. Tripoli, infatti, teme che un’eventuale guerra della coalition of the willing possa esacerbare ulteriormente gli animi e aumentare la minaccia jihadista.

Un pericolo reale, testimoniato dalla decisione del Pentagono di creare una task force di intervento rapido, schierata a breve distanza dalla costa libica, nella base siciliana di Sigonella. Un contingente che è stato ulteriormente rafforzato alla vigilia dell’anniversario dell’attentato. Dopo i primi duecento marines inviati a maggio, altri duecentocinquanta militari, di stanza a Moron, in Spagna, hanno raggiunto l’isola. D’altronde, anche il 10 settembre a Bengasi è stato ucciso in un’esplosione Salem al-Orfi, colonnello della polizia ed ex 007 di Gheddafi, e l’11 settembre una bomba è scoppiata nella sede del Ministero degli Esteri. Traumi e divisioni del passato sono difficili da rimuovere e la distanza tra laboratorio della primavera araba e Stato fallito potrebbe essere pericolosamente breve.

Twitter: @vannuccidavide

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