Ma non sarà che un leader vero e grande si riconosce dal suo fallimento? Lo suggeriscono due film assai lontani nelle forme e nella struttura come “The Grandmaster” e “Una fragile armonia”, che hanno la loro carta migliore proprio in questa rappresentazione del fallimento. Il fallimento non come infortunio della storia e precipizio incontrollato, ma circostanza accuratamente preparata e condotta, assolutamente pubblica perché non ci siano dubbi sulla sua natura, e proprio per questo ancora più partecipe della grandezza del leader, che facilita la propria deposizione per continuare la propria presenza, che manifesta e professa la propria sconfitta per far vincere la propria eredità. Se solo lo pensassero anche i nostri leader, veri o sedicenti, pateticamente affezionati alla violenza edipica, attesa scaldando la poltrona…
“The Grandmaster” è il film che il grande Wor Kar-wai (“In the mood for love” e “2046”) dedica a Yip Man, maestro delle arti marziali, fondatore della scuola che avrà come suo più celebre allievo Bruce Lee. Kar-wai fa un’operazione vagamente tarantiniana, di elegantissima stilizzazione, senza la componente pulp sostituita dalla sua magistrale sensibilità mélo, accostandosi all’epica novecentesca del kung fu e strizzando l’occhio al citazionismo e alla contaminazione tra Oriente e Occidente, specie in ambito musicale: significativo l’uso del morriconiano “tema di Deborah” preso in prestito a “C’era un volta in America” per accompagnare il finale, o lo “Stabat mater” di Stefano Lentini. Intrecciata, dagli anni Trenta ai Cinquanta, ai rovesci storici dell’invasione del Giappone nel Nord-est cinese e della Seconda Guerra Mondiale, si sviluppa la storia di Yip Man (Tony Leung), uomo del Sud, che raccoglie l’eredità del grande maestro Gong Baosen.
L’arte marziale ha però un riflesso nell’amore impossibile tra l’erede del maestro e la di lui figlia Gong Er (la bellissima Zangh Zihi), depositaria dell’ultimo e più prezioso segreto, che la renderà imbattibile (e, per riflesso, sentimentalmente inaccessibile). Il film soffre quando deve delineare il quadro storico che contiene gli avvenimenti (e i tagli subiti dall’edizione italiana non aiutano a comprendere alcuni passaggi e personaggi) ma è assolutamente grandioso quando diventa pura coreografia di due corpi nello spazio, dove la lotta si smaterializza nella splendida innaturalezza dei ralenti e delle cadute e dei salti sottratti alla gravità, diventando immagine stessa dell’attrazione erotica, mai consumata e comunque castamente suggerita. Ci riferiamo al combattimento tra il nuovo maestro e la figlia del vecchio: spettacolo puro.
Ugualmente potente è la lunga parte iniziale in cui si narra come il maestro Gong, la figura senza dubbio più bella del film, giunge alla designazione dell’erede. Lui che ha unificato le scuole marziali del Nord in un sapere che è quasi iniziatico (non per niente le riunioni si svolgono segretamente in un bordello di lusso, il Padiglione d’Oro, mostrato senza alcun carattere erotico), sente che è il momento di passare la mano. Perché il compito di un maestro non è attendere di essere sostituito ma attrezzare la successione, sapendo che essa passerà necessariamente per uno scontro in cui egli dovrà essere necessariamente sconfitto. “Essere, conoscere, agire” sono le tre funzioni di un lottatore che le interpreta in una sua dimensione quasi metafisica.
Fuori c’è intanto il mondo, la guerra, i collaborazionisti, i traditori, l’umiliazione, la vendetta: Gong Er sarà a chiamata a lavare l’onore del padre infamato da un allievo infedele per quanto dotato, rinunciando per questa via alla propria felicità. Ma dopotutto, «come sarebbe noiosa la vita senza i rimpianti». Restano i maestri, ancorché sconfitti e sepolti.
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In “Una fragile armonia” il maestro violoncellista Cristopher Walken guida invece un glorioso quartetto d’archi, The Fugue Quartet, nella New York contemporanea. I musicisti, insieme da 25 anni, si stanno preparando per un concerto in cui eseguiranno una composizione magnifica e sfiancante, l’opera n. 131 di Beethoven, sette movimenti per quaranta minuti senza pause. C’è un particolare: l’uomo scopre di avere il Parkinson, le mani e i muscoli cominciano a non rispondere più. La notizia della malattia innesca nel quartetto tensioni e dissidi fino ad allora sempre annullati dalla solida routine e dal carisma inscalfibile del capo. Il quale realizza che, a quel punto, solo attraverso una sua solitaria scelta soccombente, plateale e perciò grandiosa, la vita del quartetto e dei suoi componenti potrà continuare senza mandare tutto in rovina.
L’israeliano Yaron Zilberman, al suo esordio nella fiction, costruisce sullo scambio arte-vita una serie di conflitti che maturano fino a rischiare di precipitare in crisi irreversibile, trascinando con sé carriere, affetti, amori, ambizioni. La musica è centrale anche se lo scavo nell’opera di Beethoven avviene più sul versante dell’aneddotica (la storia di Schubert che in punto di morte chiese che venisse suonato il quartetto fino al momento estremo, la citazione dei “Quattro quartetti” di Eliot…) che sul mistero della creatività che inevitabilmente un film sull’arte suggerisce e che ben poche opere sono in grado di svelare. Resta però il bel personaggio del maestro al tramonto, un prigioniero che evade dalle proprie paure e nostalgie, cogliendo l’ultima gloria nel finale. Cast superbo nei quattro ruoli principali: oltre a Walken, Philip Seymour Hoffman, Imogen Poots e Catherine Keener.