Premessa necessaria: sono lontanissimo dal pensare che in Italia vi sia un eccesso di meritocrazia, intesa come il meccanismo attraverso cui posizioni di rilievo e di responsabilità sono attribuite con una probabilità maggiore a chi ha maggiori capacità specifiche e/o si impegna di più. L’idea sottostante è che una maggiore valorizzazione del merito porti ad una maggiore efficienza e – perlomeno nel medio-lungo periodo – a un tasso di crescita del Pil significativamente più elevato. Tuttavia, onestà intellettuale vuole che si rifletta con attenzione su quali siano i costi psicologici e sociali di un sistema fortemente meritocratico.
La cosa interessante è che il libro di Michael Young “The Rise of Meritocracy” (1958), in cui la parola “meritocracy” compare per la prima volta, è un libro fortemente critico a proposito di un ruolo eccessivo dato al merito nel funzionamento di una società: una società ossessionata con il merito è spregiativamente definita una “meritocrazia“, per l’appunto.
Forse la trattazione migliore sui costi psicologici e sociali di una meritocrazia assoluta è nel libro “Status Anxiety” (“L’importanza di essere amati”) dell’autore svizzero – e “filosofo divulgativo” – Alain de Botton: in una società di tipo familistico o feudale in cui il successo economico e sociale dipende sostanzialmente dalla posizione sociale della propria famiglia di origine, l’insuccesso potrebbe anche non essere terribilmente doloroso da un punto di vista psicologico, in quanto “non è colpa” dell’individuo in sé che non è stato abbastanza capace e/o non si è impegnato a sufficienza, ma della sfortuna dell’essere nato nella classe sociale sbagliata. Puoi maledire la sorte, ma non è di fatto colpa tua.
Tutt’altra faccenda in una società assolutamente meritocratica: se “non ce l’hai fatta”, se non hai avuto successo, la colpa è largamente tua, perché non sei intelligente/bello/bravo/simpatico/competente abbastanza, oppure non ti sei impegnato abbastanza per avere successo, sforzandoti ed accumulando capitale umano. Chi è sopra di te è stato più bravo. Punto.
Tuttavia, vi sono strategemmi intelligenti capaci di limitare le tensioni psicologiche che si generano in un sistema fortemente meritocratico, come quello delle università statunitensi, e in particolare le più antiche, che appartengono alla cosiddetta “Ivy League”. Qui mi viene in soccorso un libro rilevantissimo ad opera del sociologo George Karabel, intitolato “The Chosen” (“I prescelti”), il quale si incentra sulla storia dei meccanismi di ammissione alle tre più importanti università americane, cioè Harvard, Yale e Princeton. Uno dei temi principali trattati è quello del modo in cui all’inizio del ’900 criteri di ammissione fortemente meritocratici siano stati affiancati dalla valutazione aggiuntiva del “carattere”, del “carisma” dello studente entrante (“character”), con il fine precipuo di limitare il numero di studenti ebrei ammessi. L’esempio negativo sotto questo punto di vista era dato dall’Università Columbia di New York, la quale aveva visto una percentuale di studenti ebrei ammessi superiore al 20%, inducendo le famiglie ricche e protestanti della città (i cosiddetti Wasp, White Anglo–Saxon Protestants) a spedire i loro rampolli lontano, in particolare alle tre università menzionate sopra, che erano “meno contaminate“.
Il punto è questo: un criterio di ammissione non totalmente meritocratico crea margini per l’ammissione di soggetti non eccezionali dal punto di vista della performance di studio futura, ma “ben messi” sotto altri profili: sportivi, figli di ex alunni, figli di forti donatori alle università. Questo gruppo di studenti “non meritocratici” spesso era pari o superiore ad un quarto della classe entrante, e veniva a formare una larga parte del “felice quarto più basso” (happy bottom quarter), ovvero quel 25 percento di studenti dalla performance accademica peggiore, ma che tranquillamente se ne infischiava della cosa. In questo modo – per ragioni molto meno nobili – si evitava il rischio psicologico di avere troppi studenti ammessi solo sulla base del merito, ma relegati agli ultimi posti della classifica per il fatto di non essere abbastanza bravi.
A questo proposito, ancora più illuminante il confronto con università non appartenenti all’Ivy League come Mit (Massachusetts Institute of Technology) e Caltech (California Institute of Technology), le cui ammissioni erano esclusivamente basate sul merito accademico e non sul carisma. Ciò portava a costi e benefici differenziali rispetto al trio Harvard/Yale/Princeton: performance accademiche maggiori ma maggiore stress psicologico e tassi di suicidio più elevati.
Il discorso sui costi della meritocrazia meriterebbe (scusate il gioco di parole) lo spazio di un libro, non solo di un articolo. In ogni caso, l’esperienza particolare dell’happy bottom quarter forse insegna che la maniera migliore per limitare questi costi consiste nell’enfatizzare la multidimensionalità del merito: puoi essere una schiappa in matematica, ma il miglior quarterback della squadra di football, oppure il miglior musicista. Le abilità di un individuo possono essere correlate positivamente da un’area all’altra, ma l’essere «generale tra i poeti, poeta tra i generali» potrebbe rimanere una via di uscita possibile per molti, rispetto alla sottile atrocità di un mondo monodimensionale.
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