Nel suo “op-ed” pubblicato l’11 settembre sul New York Times (“A Plea of Caution from Russia”) il presidente Vladimir Putin esprime un’opinione inappuntabile. Il leader russo afferma che l’Onu potrebbe collassare, se gli Stati Uniti intervenissero in Siria senza la sua autorizzazione. Sugli aspetti militari,
«un attacco incrementerebbe la violenza e scatenerebbe una nuova ondata di terrorismo. Minerebbe gli sforzi internazionali per risolvere il problema nucleare iraniano e il conflitto israelo-palestinese, e destabilizzerebbe ulteriormente il Nord Africa e il Medio Oriente. Getterebbe l’intero sistema di diritto internazionale e ordine fuori equilibrio».
È la seconda volta che un leader russo scrive sul New York Times – con il precedente del più moderato Mikhail Gorbaciov, che prima di occuparsi di giornalismo ha però aspettato di lasciare il Cremlino. Sull’opinione in sé, Putin ha ragione. Ha ragione a sostenere che un intervento senza legittimazione Onu avvicinerebbe la condotta di Barack Obama a quella di George Bush (junior), e ha ragione a sostenere che l’intervento aumenterebbe le violenze. Ciò che Putin non dice, però, è che dietro a queste grame conseguenze ci sarebbe – ehm – Vladimir Putin.
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L’improvvisa passione del presidente russo per le Nazioni Unite non dipende da chissà quale cura per il diritto internazionale. Putin vuole impedire qualsiasi avanzamento nella posizione occidentale contro il regime siriano, e per far questo ha a disposizione lo strumento del veto in sede Onu. La prima volta è stato impiegato in favore del regime degli Assad nell’ottobre 2011: in una votazione del Consiglio di Sicurezza, si «condannavano le violenze» contro gli insorti. Su 15 membri del Consiglio, nove hanno approvato la risoluzione, ma Cina e Russia hanno bloccato il tutto tramite il veto.
Putin sa bene che l’Onu è apparato vetusto e del tutto inadatto alle condizioni attuali del sistema strategico internazionale. Nell’era della guerra asimmetrica, è assai comodo per il Cremlino rifornire di armi e soldi governi oltranzisti in Medio Oriente, salvo poi spendersi per impedire qualsiasi operazione atta a limitare le attività belliche e sanguinarie degli stessi. Lo scopo degli Stati Uniti non è il regime change, e non è neanche l’aiuto ai ribelli – lo ha detto chiaramente il segretario di Stato John Kerry – gli Usa vogliono colpire gli arsenali chimici. La Russia vuole fare in modo che lo strumento del veto rimanga intatto nel suo potere di stallo anche quando la questione iraniana diventerà più urgente, e Mosca farà di tutto per dotare i Pasdaran della bomba.
Mosca ha negoziato con Assad, il quale ha accettato di «consegnare tutti gli arsenali». È un passo avanti? Per ora, si può solo considerare che – ricorda l’opinionista conservatore Charles Krauthammer – «gli ispettori saranno controllati da Assad, protetti da Assad, condotti da Assad, diretti da Assad presso qualsiasi destinazione». È il solito diversivo russo per perdere tempo, tergiversare, posporre, e così sperare che la situazione cambi in proprio favore.
Poter avanzare pretese come quelle espresse sul New York Times non è segnale di alcuna ritrovata potenza russa: è semmai il contrario. La Russia si sta appellando ipocritamente a “principi di diritto internazionale”, ma non si è mai fatta scrupoli a tralasciare qualsiasi questione umanitaria per perseguire i propri interessi strategici in Medio Oriente. Manca poco che Putin si metta a battere la scarpa sul banco dell’Onu “a-la-Chruščёv”. Per quanto sembri che la storia della scarpa sia leggenda, ben descrive un’epoca in cui i leader dall’Oriente vedevano nell’Assemblea delle Nazioni Unite un’irrinunciabile platea politica per roboanti discorsi politici, colmi di teatralità.
Carroarmato a Maaloula, Siria
Nella situazione attuale non possiamo leggere alcun “declino americano” (è l’opinione di Roger Cohen sul New York Times). È vero che gli Stati Uniti non possono intervenire “liberamente” in Medio Oriente, ma non lo sono mai stati. Non sono intervenuti direttamente nelle crisi del 1956, del 1967, del 1973. Hanno lasciato Libano e Somalia non appena la situazione è peggiorata. Hanno sempre avuto successo in occasione di interventi limitati e specifici, e hanno dovuto scontare periodi terribili di bilancio e impasse politica dopo azioni militari in grande stile. In Siria preferiscono lanciare missili da lontano, se possono limitarsi a questo.
Perché – si diceva – non si trascuri un elemento chiave nell’articolo di Putin: gran parte dei “problemi” nei quali si potrebbe incorrere se gli Stati Uniti intervenissero in Siria sarebbero causati dai russi. Il problema dell’islamismo radicale che ha preso piede tra i ribelli è dovuto al rallentamento diplomatico causato dai veti russi. Gli “sforzi multilaterali” per risolvere la questione nucleare iraniana sarebbero minati da un rifiuto russo di andare avanti, e non da altro. Il conflitto israelo-palestinese sarebbe destabilizzato dal continuo impegno di Mosca di rifornire di armi Hezbollah nel Libano meridionale, e – all’occasione – Hamas nella Striscia di Gaza.
Questa pelosa mano tesa da Putin è un’ammissione di debolezza strategica. La Russia sa che Assad è un suo importante baluardo tra Iran e coste del Mediterraneo, e non può permettersi di perderlo.
Il problema è che Putin non ha risorse: in mancanza di leve strategiche, la “minaccia” di far saltare il banco è poco credibile. L’op-ed del leader russo sul New York Times è stato un bel risultato del lavoro dell’agenzia di pubbliche relazioni che lavora lui – la Ketchum del gruppo Omnicom – e forse i bravissimi manager riceveranno un nuovo bonus a fine anno. Ma la Russia – che sta perdendo accesso al Medio Oriente, che sta vedendo le rendite di petrolio e gas assottigliarsi, che sta assistendo all’Ucraina scivolare verso l’Unione Europea senza poter far nulla – non è il paese forte che Putin vuol far credere.
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