Letargocrazia, Berlino sonnecchia davanti al vulcano

Il voto tedesco e gli intellettuali

Il termine più innovativo per questa campagna elettorale, e più in generale per lo stato della democrazia tedesca, l’ha coniato il filosofo Peter Sloterdijk: e cioè “Lethargokratie”, letargocrazia. I politici sono privi di idee e strategie che vadano oltre il qui e ora; i programmi dei due maggiori partiti popolari si distinguono a volte più per le definizioni (per esempio: soglia retributiva minima al posto di salario minimo) che per i contenuti. E anche il sostanziale pareggio del duello televisivo di domenica scorsa tra il cancelliere Angela Merkel e lo sfidante, il socialdemocratico Peer Steinbrück, ne è stata una prova. 

Ora, non è che non vi siano problemi da risolvere: a partire da un numero crescente di lavori sottopagati, così come la riforma energetica, che rischia di costare molto agli utenti. E ancora, la politica degli affitti, sempre più cari per il cittadino comune, e la riforma fiscale, da tempo promessa ma sempre rinviata. Si dice però, che in tempi di benessere, i politici siano recalcitranti ad avviare cambiamenti. E anche i tedeschi, pur chiedendosi quanto ancora potrà durare la congiuntura attualmente a loro favorevole, ora come ora vogliono solo godersi l’attimo. E premiano di più chi racconta loro che non solo tutto va bene, ma continuerà ad andare bene (premesso che si voti giusto, Merkel, cioè Cdu o liberali dell’Fdp), piuttosto che colui o coloro che puntano il dito contro le future incertezze e possibili avversità (Steinbrück, Spd o Verdi).

La maggioranza degli elettori è poi convinta che, al di là della coalizione che si verrà a formare dopo il 22 settembre – un secondo governo Unione-Liberali/Fdp, oppure una grande coalizione Unione-Spd, o una Spd-Verdi – il corso politico non cambierà di molto, non potrà cambiare molto, anche per via dell’eurocrisi. Da qui lo stato più o meno comatoso o di letargia politica in cui il paese sembra trovarsi. Da qui anche i ripetuti appelli di alcuni intellettuali. Perché di temi su cui confrontarsi seriamente e duramente ce ne sarebbero.

A iniziare dall’Europa. Nel recente discorso al Bundestag, l’ultimo prima delle elezioni, Merkel e Steinbrück si sono attaccati proprio sulla gestione della crisi europea: ma che credibilità avevano entrambi visto che si rinfacciavano reciprocamente di essersi sostenuti a vicenda nella gestione della crisi?

Oggi gli intellettuali tedeschi si dicono profondamente delusi dalla politica (Günter Grass escluso, che anche per questa campagna elettorale si presta volentieri a salire sui palchi in sostegno dei socialdemocratici). Si dicono delusi perché nonostante i tanti, ripetuti spunti di dibattito forniti, la politica si è guardata bene dal coglierli. Il filosofo Jürgen Habermas nell’ultima raccolta di suoi saggi appena pubblicata (“Im Sog der Technokratie” – Nel vortice della tecnocrazia, ed. Suhrkamp) non solo si occupa approfonditamente del sistema democratico dell’Unione Europea sempre più insidiato dalla tecnocrazia, ma tocca e approfondisce anche un altro tema, altrettanto importante: quello della solidarietà. «La solidarietà è un atto politico che non presuppone alcuna tendenza altruistica di tipo morale, che in questo contesto non c’entra».

Il concetto di solidarietà illustrato da Habermas parte invece dalla constatazione che la globalizzazione ha creato una tale dipendenza reciproca tra gli stati che la solidarietà è un gesto politico strategico, che aiuta certo chi oggi è in difficoltà, ma al tempo stesso mette al riparo chi pratica questa solidarietà dal rischio di essere contagiato dalla crisi. Uno spunto interessante, che permette di elevare il dibattito sugli eurobond dalle secche del divieto di mutualizzazione del debito inserito nel Trattato di Maastricht, e anche dalle considerazioni molto semplicistiche (per quanto nella sostanza inattaccabili) del perché mai il contribuente tedesco dovrebbe accollarsi il debito italiano o spagnolo.

Un altro intellettuale che non si stanca di sollecitare un serio dibattito europeo è Ulrich Beck. Come Habermas, anche Beck ha iniziato a sollecitare questo dibattito ben prima dello scoppio della crisi dell’eurozona. Beck in uno dei suoi recenti libri-pamphlet “L’Europa” (Europa tedesca, Laterza) parla delle due scuole di pensiero che si sono venute a strutturare in seguito alla crisi dell’eurozona: quella degli euroarchitetti, che spingono per una maggior integrazione europea, e quella dei difensori dello stato nazione. Beck ricorda il pensiero gramsciano, secondo il quale una crisi costituisce sempre la fine del vecchio mondo e la nascita di un nuovo sistema, che dovrà affermarsi contro resistenze e contraddizioni.

Secondo il sociologo, la politica tedesca farebbe bene a confrontarsi con queste due correnti perché «la Germania è diventata troppo potente per permettersi il lusso dell’indecisione e dell’inattività, eppure va avanti come un sonnambulo per la sua strada». O, per citare J. Habermas, «La Germania non sta ballando, sta sonnecchiando  su un vulcano». E se fino al 22 settembre i politici (non solo Merkel, ma anche Steinbrück, Gabriel – il capo dell’Spd – Jürgen Trittin, capo dei Verdi) si saranno ben guardati di entrare nello specifico di quel che l’Europa dovrà essere, e quale ruolo vorrà o dovrà assumere la Germania, dopo le elezioni (e anche in previsione delle elezioni europee del 2014), la domanda – quale Europa vogliamo? – non sarà più rimandabile.

Ma tutte queste aspettative sull’operato tedesco sono condivisibili? Secondo Bernd Roeck, professore di storia, tedesco, con cattedra all’università di Zurigo, no, non sono giustificate. «Dal punto di vista storico andrebbero considerati tre aspetti importanti: l’Unione Europea è stata fondata per impedire nuove guerre sul continente, e questa ratio è assolta. Altrettanto importante è il fatto che l’Europa per la prima volta viene governata senza ideologie o utopie, da qui anche una politica più pragmatica. E infine, che l’Occidente, nonostante diseguaglianze e contraddizioni è la società in cui si sono realizzati praticamente tutti gli ideali di una società civile: il riconoscimento dei diritti dell’uomo, la parità dei sessi, la libertà religiosa e via dicendo». E per quel che riguarda invece il passato, Roeck a chi ricorda che la Germania del dopoguerra fu rimessa in piedi dal piano di aiuti economici Marshall, replica che per quanto ci si possa dispiacere, la gratitudine non è un fattore determinante nella politica.

Le critiche che intellettuali e mass media muovono all’attuale campagna elettorale, e in genere alla politica e ai politici del momento, è quella di non avere grandi visioni e di non porre l’elettore davanti a strategie e programmi politici veramente alternativi tra di loro, anzi di essersi tutti adattati al detto politico di Merkel “alternativlos”, senza alternativa. Per Habermas la Germania sta sonnecchiando sulla bocca del vulcano, e Merkel governa alla meno peggio, avvalendosi di un pragmatismo privo di qualsiasi principio, se non quello della propria utilità. Uno stile per il quale Habermas ha coniato anche il termine merkiavellismo. Il sociologo Harald Welzer chiama addirittura all’appello i concittadini per boicottare le elezioni, vista la scarsezza di contenuti dei programmi, la codardia dei politici.

Una delle poche voci fuori dal coro è Ulf Poschard, commentatore del quotidiano liberista Welt. Lui non condivide le continue critiche, e in un recente articolo se la prendeva con l’arroganza narcisista degli intellettuali tedeschi. I quali, dice Poschard, continuando a dare addosso ai politici finiscono per dare addosso anche agli elettori, i quali, nonostante tutta la cosiddetta “demoletarghia”, continuano a sostenere entusiasti Merkel. Che l’Europa abbia aspettative è comprensibile, ma non è affatto scontato che essere il paese economicamente più benestante voglia dire automaticamente avere anche grandi visioni. D’altro canto, c’è qualcuno tra i politici europei dei giorni nostri ad avere una visione?

Jacques Delors in un’intervista del 2011 al quotidiano Frankfurter Allgemeine rispondeva alla domanda se secondo lui Angela Merkel avesse una visione futura dell’Europa così: «Difficile dirlo, anche se è perfettamente consapevole della serietà della situazione attuale». Delors allora aveva aggiunto che il tandem tedesco francese Merkel e Sarkozy non era paragonabile ai a quelli passati, composti da Helmut Schmidt e Giscard d’Estaign o da Helmut Kohl e François Mitterand. Indubbiamente è vero che una campagna elettorale che avesse avuto il coraggio di fare dell’Unione Europea, della crisi dell’eurozona uno dei grandi temi sarebbe stata molto più interessante, e non solo per i tedeschi chiamati a votare.
Ma se invece si ridimensionassero queste elezioni? Se le si guardasse dal punto di vista del cittadino tedesco, che sceglie i propri rappresentanti innanzitutto in base a quel che gli propongono come politica interna? Così abbiamo votato noi italiani, così hanno votato l’anno scorso i francesi. Nessuno di loro aveva l’Europa in testa. E così voteranno i tedeschi, e visto che i programmi, come detto paiono essere molto simili, ai tedeschi una grande coalizione andrebbe anche bene in questi tempi, internazionalmente parlando, incerti. Perché non è che non si sappia dell’intreccio globale sempre più esteso.

P.s. Come nota finale, va aggiunto poi, che forse ci sono pochi paesi in cui il dibattito sull’Europa è più vivace. Perché alle tesi pro europee di Beck, Habermas, Slotedijk, si contrappongono quelle più economiche, ma non meno autorevoli di Hans Werner Sinn, direttore di uno dei più prestigiosi istituti di studi economici, l’Ifo di Monaco; e ancora di Hans Olaf Henkel, l’ex presidente degli industriali tedeschi; o del bastian contrario Thilo Sarrazin, socialdemocratico ed ex ministro delle Finanze di Berlino, secondo il quale come recita il suo saggio pubblicato anche in Italia “L’Europa non ha bisogno dell’Euro”.  

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