L’italianità perduta? Si vede anche dalla Borsa

Altro che Telecom o Alitalia

Ci sono diversi modi di vedere il declino dell’Italia sui mercati finanziari. Lo si può vedere con gli occhi, miopi, delle società battenti bandiera italiana acquisite dagli stranieri. Lo si può vedere da come la politica e gli interessi particolari hanno distrutto le aziende italiane maggiormente competitive. E lo si può guardare anche attraverso le Ipo (Initial public offering, o offerta pubblica iniziale) delle imprese italiane. Praticamente assenti sui mercati internazionali, negli ultimi dieci anni. A esclusione di Prada, listata a Hong Kong nel 2011, e poche altre, la morte delle multinazionali italiane è una realtà consolidata. Traduzione: la quotazione sembra non essere di moda per l’Italia.

L’ultimo rapporto di Ernst & Young sull’attività globale di quotazione delle società è desolante, se guardato con gli occhi dell’Italia. Nei primi nove mesi dell’anno, secondo i calcoli della società di consulenza strategica, ci sono state 566 Ipo, per un controvalore finanziario di 94,8 miliardi di dollari. Tanto, specie perché, per esempio, le sole quotazioni avvenute a Wall Street nei primi mesi del 2013 hanno sorpassato i livelli di tutto il 2012. E tanto perché la richiesta di accedere al mercato dei capitali è sempre più elevata. Ai dati finora osservati si dovranno aggiungere altre 200-250 quotazioni, per un controvalore compreso fra i 30-40 miliardi di dollari. È questa la stima compiuta da E&Y per l’ultimo trimestre dell’anno.

La mappa globale vede gli Stati Uniti come meta favorita. Il 51% degli investimenti in quotazioni avviene a Wall Street, fra Nyse Euronext e Nasdaq. Poi seguono Cina e Hong Kong, con il 38%, e il Brasile, con il 33 per cento. Il resto dell’Asia guadagna la medaglia di legno, con il 25 per cento. Per trovare il primo Paese europeo bisogna arrivare alla quinta posizione. Qui si trova infatti il Regno Unito, con il 20% degli investimenti in Ipo nel 2013. Staccata di un punto percentuale c’è la Germania, che è il primo rappresentante dell’eurozona. Tutti gli altri Paesi europei, quindi Italia compresa, arrivano al 17 per cento. India, Messico, Giappone e Singapore sono tutte al 14%, una quota ben superiore rispetto a quella di tante Borse dell’eurozona.

Sul fronte nordamericano, tutto è come negli anni passati. Nyse Euronext si è confermata anche per il primo semestre del 2013 come leader negli investimenti in Ipo con un totale di 72 transazioni e 28 miliardi e mezzo di dollari raccolti. Nei soli Stati Uniti, il capitale raccolto dalle Ipo quotate a Wall Street è stato quattro volte più grande di qualsiasi altro mercato americano, come riporta il sito istituzionale del Nyse. Zoetis Inc. e ING US sono state le due top Ipo per Nyse nel 2013 con un ammontare dell’offerta di 2,238 miliardi di dollari l’uno e 1,271 miliardi l’altro. E anche per il Nasdaq, stessa tendenza.

L’Europa ancora gioca un ruolo importante. Nei primi tre trimestri dell’anno ci sono state 101 quotazioni, per circa 12,9 miliardi di dollari. Si tratta di un ritorno delle società in Borsa, dopo un 2012 chiuso con più Ipo complessive, 130, ma per un controvalore inferiore, 4,2 miliardi di dollari. A trainare è Londra. La ritrovata crescita economica, la prospettiva che sia una ripresa sostenibile e un nuovo ottimismo tra le imprese. Sono questi gli elementi che hanno fatto sì che il 2013 stia diventando per la City, e quindi per l’Europa, l’anno delle Ipo. Il 41% delle 650 società britanniche che stanno crescendo di più, afferma di prendere in considerazione l’idea di Ipo, contro il 9% dell’anno precedente. Il valore delle Ipo britanniche, attualmente, ha già toccato i 7,16 miliardi di dollari, secondo quanto riportato da Dealogic, otto volte la cifra del medesimo periodo del 2012. Un ulteriore dato positivo è il ritorno dei grandi fondi americani che si erano allontanati dagli investimenti in Europa, a seguito della crisi dell’area euro, e che ora rappresentano il 30-40% degli investimenti in Ipo in Regno Unito.

Ancora in auge è l’Asia, nonostante stia avvenendo un parziale ritracciamento e, notizia di ieri, il colosso cinese Alibaba abbia deciso di abbandonare la quotazione a Hong Kong per andare a cercare fortuna in America. L’oriente rimane ancora una delle mete preferite per chi vuole cercare capitali sul mercato. Tra il 2009 e il 2011 Hong Kong è stato il leader globale per quel che riguarda gli investimenti in Ipo. Dopo essere finita al terzo posto nel 2012, ora, secondo il report pubblicato da Ernst & Young, ha riguadagnato posizioni, piazzandosi al secondo posto dietro alla borsa statunitense. Nonostante le società cinesi abbiano sempre investito per lo più nel mercato di Hong Kong, il numero delle nuove quotazioni era diminuito per la scarsa domanda da parte di nuovi investitori. Stando a quello che riporta PricewaterhouseCoopers, nel primo semestre del 2013 si è cominciato a registrare nuovamente una forte domanda nonostante una diminuzione delle quotazioni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. «Gli investimenti in Ipo hanno raggiunto i 39,5 miliardi di dollari di Hong Kong nel primo semestre del 2013, un aumento del 28% rispetto al primo semestre del 2012. Questo dimostra che, nonostante una diminuzione nel numero degli Ipo, c’è una forte spinta verso nuove quotazioni con un significativo aumento dei fondi».

La più grande quotazione finora vista però non è né avvenuta negli Usa né in Asia. È la brasiliana Seguridade Participacoes, la branca assicurativa del Banco do Brasil, che ha raccolto 4,2 miliardi di dollari in aprile. Poi, la giapponese Suntory, colosso del beverage diventato celebre in occidente per essere la marca di whisky pubblicizzata da Bill Murray in “Lost in translation”, che si è quotata ottenendo circa 4 miliardi di dollari. La febbre da quotazione non riguarda solo i giganti dei mercati emergenti o le (ex) start-up del comparto tecnologico come Facebook, listata nel 2012, o Twitter, che lancerà l’Ipo a breve. No. La fame di entrare nel mercato dei capitali è omogenea.

Poi, ma solo in versione ridotta e del tutto periferica, arriva Borsa Italiana. Improponibile il confronto con le piazze finanziarie europee, ancora meno con quelle globali. E dire che Palazzo Mezzanotte fino a dieci anni fa era una delle Borse più in vista del continente. Ora è la ventesima piazza al mondo, secondo la capitalizzazione. Era la nona nel 2002. L’analisi condotta da R&S Mediobanca sulla finanza che conta, a fine 2012 ha restituito all’Italia un posto che nessuno si attendeva di avere: quello della maglia nera fra le piazze negli ultimi dieci anni. Tralasciando Yoox, Moleskine, Brunello Cucinelli e Italia Independent, c’è uno scenario desolante. In confronto, il Tenente Drogo si sentirebbe a casa nel Deserto dei Tartari.

Competitività, attrattività, fiducia degli investitori. Tutte queste qualità, che sono le lacune che i mercati finanziari lamentano all’Italia da almeno un ventennio, possono essere ricercate anche attraverso le Ipo. «Quotarsi significa, nella maggior parte dei casi, mettersi in gioco», scrisse Warren Buffett, il guru di Wall Street, negli anni scorsi. Un concetto che sembra avulso alle società italiane.  

Twitter: @FGoria + @mezanini

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