“Mood Indigo” è bizzarro e visionario ma sa convincere

Il nuovo film di Michel Gondry

«Per caso lei è stata arrangiata da Duke Ellington?», domandò al primo incontro Colin a Chloè, che si chiamava come una canzone. Il vecchio Duca veglia su questo “Mood Indigo” di Michel Gondry sin dal titolo (appunto un pezzo del musicista). Ma risuonava già nel romanzo matrice, il celebre “La schiuma dei giorni” di Boris Vian, che introducendo il libro postulava: «Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington. Il resto sarebbe meglio che sparisse, perché il resto è brutto».

Brutta e terribile e struggente è l’angoscia che la storia, pur brillante e inventiva e quasi lisergica, monta raccogliendone la schiuma nel procedere dei giorni di quell’amore: l’angoscia per la malattia di lei. Colin e Chloè sono giovani e belli e spensierati, ma nei polmoni di lei sta crescendo una ninfea che la costringe a letto e le toglie vita poco a poco. Chi abbia presente “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello («La morte, capisce?, è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: Tientelo, caro, ripasserò fra otto o dieci mesi») può immaginare la metafora botanica a cosa rimandi. Solo i fiori, fiori su fiori, disseminati in casa, possono dare respiro nuovo a lei, e Colin si svena per comprarne di sempre freschi. Ma il tragitto inevitabile del destino è segnato.

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Ricapitoliamo: lui ama lei, lei ama lui, si mettono assieme ma il dannato cancro distrugge tutto. “Love story”, direte voi (e forse qualcuno “Bianca come il latte, rossa come il sangue”). Peccato che Vian precedette tutti col suo romanzo già nel 1946, vendendone poche centinaia di copie ma sotterraneamente crescendo nelle letture dei decenni successivi. Gondry, classe 1963, ha dichiarato di aver nutrito per la storia un’autentica ossessione, spiegando che in fondo è questo il suo primo film, perché lo aveva sui propri occhi sin da adolescente, a carriera nemmeno in cantiere. E sulla sua carriera qualche parola merita di essere spesa: perché prima di realizzare uno dei più bei film degli ultimi lustri, “Se mi lasci ti cancello” (assassina traduzione italiana di “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”, anno 2004), Gondry ha realizzato alcuni dei più celebri videoclip, soprattutto per la cantante islandese Björk. Il regista francese ha spiegato che “Mood Indigo” è molto vicino alle atmosfere proprio dei video di “Bachelorette” e “Army of me”.

Con un budget piuttosto importante (anche dovuto a un cast di tutto rispetto e di un certo peso: Romain Duris, Audrey “Amélie” Tautou, Omar Sy coprotagonista di “Quasi amici”) Gondry trasforma la pagina visionaria di Vian in un mondo di bizzarrie e visioni eccentriche, evitando quanto più possibile gli effetti digitali a favore di soluzioni analogiche di alto artigianato scenografico: basti vedere come è realizzata la casa di Colin, come le carrozzerie delle automobili vengano modificate per cui la parte davanti diventa quella di dietro, e come Parigi sia insieme nostalgicamente pittoresca e futuribile. Moltissimo del romanzo viene mantenuto (in testa la presa in giro dell’esistenzialista Jean-Paul Sartre, dominus della scena intellettuale parigina, assai poco camuffato in Jean-Sol Partre: per la verità il filosofo e scrittore si divertì molto per il libro, sponsorizzandolo perfino, cosa questa del tutto impensabile nella permalosa e litigiosa Italia culturale di ieri e di oggi).

Gondry ci mette del suo quanto a fantasia nella trasposizione: pensiamo all’idea di sostituire gradualmente il colore col bianco e nero, o di mostrare nella stessa inquadratura il diluvio a sinistra e la serenità assolata a destra. Virtuosismi che possono sembrare un po’ vanitosi, ma tutto sommato funzionali al racconto.

La coincidenza temporale ha voluto che nel giro di poche settimane incrociassimo le ultime realizzazioni di due maestri del racconto audiovisivo applicato alla canzone: questo “Mood Indigo” e “Under the skin” di Jonathan Glazer (regista per Radiohead e Jamiroquai, tra gli altri) passato in concorso all’ultima Mostra di Venezia. Tendiamo a comprendere ma non a condividere certe perplessità che accompagnano le due opere. Di certo si tratta di lavori non completamente compiuti, irrisolti probabilmente nella loro scrittura, eppure manifestano, all’interno di un cinema comunque legato a grandi investimenti e allo star system, uno sperimentalismo e una voglia di superare i margini del racconto tradizionale che non sono da buttare. Per di più perché evitano di rinchiudersi nella gabbia di certa autoreferenzialità autoriale, spesso condita di situazioni estreme e scandalismo a uso festivaliero (peni tranciati, fiumi di sangue, sterili estetismi), preferendo piuttosto narrare storie con approcci molto personali e notevole professionismo, aprendosi a un confronto non astioso con la sensibilità del pubblico. Sofisticati e popolari. Noi apprezziamo. 

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