«La Mostra internazionale di cinematografia che da oggi, ogni due anni, si terrà a Venezia al fianco delle Biennali d’arte e dei Festivals musicali è giovane, agile, ricca. E di tutta la massiccia ed enorme attrezzatura industriale che fa vivere il mondo dello schermo, qui appariranno soltanto i risultati d’arte, quelli che contano, che s’impongono, che insegnano. Soltanto qualche anno fa c’era da far arricciare il naso a parecchi, parlando loro dell’“arte” dello schermo. Il cinema era, per i circospetti e i diffidenti, poco più d’una semovente lanterna magica, trasmigrata dalle baracche da fiera alle nuovissime sale sovraccariche di stucchi a puttini a rosoni e a ghirlande».
Così scriveva Mario Gromo, forse il papà dei critici cinematografici italiani, nella Stampa del 7 agosto 1932. All’hotel Excelsior del Lido di Venezia era appena cominciata quella che sarebbe diventata la Mostra internazionale d’arte cinematografica, secondo la denominazione ufficiale; per gli amici Mostra del cinema, o Festival di Venezia.
Un passo indietro. Nel 1929 si registra una devastante crisi economica e gli americani smettono di venire a spendere i loro dollaroni a Venezia. A Giuseppe Volpi di Misurata si accende una lampadina: i medesimi americani nel medesimo 1929 si erano inventati gli Academy Awards, più noti come Oscar di qua dell’Atlantico. Allora: perché non copiare gli americani?
Giuseppe Volpi, conte di Misurata, non era un pischello qualsiasi: veneziano di nascita, già governatore della Tripolitania (da cui il titolo nobiliare su Misurata) nonché ministro delle Finanze di Mussolini, al momento ricopriva la carica di presidente della Biennale. Detto, fatto: nasce la Mostra del cinema. Le proiezioni si effettuano sulla terrazza dell’hotel Excelsior, in quella prima edizione non ci sono film in concorso (i premi arriveranno due anni più tardi, con la seconda edizione).
È proprio Volpi a pronunciare il discorso inaugurale. Gromo ne sembra entusiasta: «Con voce piana e pacata, semplice e stringato, ha soprattutto espresso l’impegno che da oggi il gran nome di Venezia assume di fronte alla nuovissima arte; impegno d’ospitalità, di severità, d’accoglienza. E la calda ovazione che ha accolto le sue ultime parole ha chiaramente espresso come questo impegno sia stato fin d’ora mantenuto».
Poi il giornalista rivolge la sua attenzione alla platea: «Un pubblico elegantissimo, un pubblico difficilmente abbinabile a un’altra platea cinematografica, nella penombra biancheggiava di spalle ignude e di sparati; per il tempo incerto, si era adunato nel gran salone dell’Excelsior; il mormorio della risacca giungeva in un ritmo, lento, a render più immenso l’azzurrino stellato del cielo.
La “prima” eccezionale aveva fatto disertare i “dancings” e i tavolini di Quadri e del Florian da parte di questa colonia cosmopolita che nel pomeriggio aveva affollata la spiaggia e i campi di golf e di tennis; qualcuno avrebbe rivisto un film che già aveva veduto in Broadway un mese fa; e se ne sentiva meno lontano. Quando le lampade si sono spente, e dal candido schermo si sono diffusi i tenui accordi che accompagnavano l’apparire in dissolvenza d’un titolo, dal gruppetto degli organizzatori m’è giunto un “Ghe semo”».
Qualche giorno dopo, il 20 agosto, Mario Gromo sembra meno entusiasta, probabilmente si annoia un po’. «Il Lido non è affollato che di dive e di divette», scrive, sottolineando il fatto che di grandi nomi proprio non se ne vedono. E se la prende anche con i veneziani in spiaggia che evidentemente non dovevano riuscirgli simpatici. «Uno si rimorchia un’americanina sequestrata sulla spiaggia, non sa dirle altro che “bài, bài”, ride a crepapelle; un altro ha sottobraccio alcune dispense di diritto romano gualcite in traslochi e traslochi per capanne, trampolini e campi da tennis; un altro ancora ha sempre con sé una gran busta di cuoio nella quale conserva in bell’ordine i programmi delle varie serate». Ma non c’è dubbio che ammiri il «bronzeo guizzare di muscolature giovanili tra gli spacchi del pigiama e delle maglie da bagno».
La Stampa del 27 agosto pubblica l’articolo di congedo di Gromo. «Per sedici sere non si son visti che films, per sedici giorni non s’è parlato che di cinema. Attorno alle tavole da pranzo, a quelle da gioco, sugli alti sgabelli dei bar, tra le capanne, sui trampoli, sui motoscafi, il “tifo” del cinema ha imperversato come il clinico più ottimista non avrebbe osato diagnosticare. Nella caldura pomeridiana, lungo il lieve morire della risacca, dinanzi a questo mare che in certi giorni ha la calma della laguna che alimenta e la distesa dell’acqua si perde nella lontananza di brume che hanno riflessi di madreperla, sorge ogni tanto un piccolo grido femminile che è tutto una sfida e una minaccia: “Ti dico che voglio fare un provino”. Giungono di rincalzo i borbottii d’una voce maschile, timido oboe che non la spunta con quel clarinetto; e quasi sempre la diva ancora in incognito se ne esce dalla capanna, corrucciata e sdegnosa, per una solitaria passeggiatina di protesta, pigiama e capelli al vento, in un magnifico effetto di controluce».
E poi un po’ di bilancio, «alcune cifre, per chi le pretenda a ogni costo. La terrazza ospitava, ufficialmente, settecento posti; in sedici sere si è avuta un’affluenza di 18.800 spettatori, con un incasso complessivo di circa duecentomila lire. Nessun film fu accolto in silenzio, ma ognuno da convinti applausi (peraltro «a scena aperta») o da zittii implacabili che naturalmente suscitavano reazioni e battibecchi che destavano battimani ancor più scroscianti e fischi ancor più stridenti». L’appuntamento sarebbe stato due anni più tardi, rispettando, al momento, la scadenza temporale della Biennale. Ma la Mostra sarebbe subito diventata annuale.
Twitter: @marzomagno