Privatizzazioni. Ne servono tante, benedette e subito

Letta e l'atteso piano di dismissioni

Siamo tornati alle privatizzazioni? Le sortite estive del Premier, Enrico Letta, hanno scatenato un dibattito piuttosto ampio, e soprattutto hanno condotto all’annuncio inequivoco, dal palco di Cernobbio, di un piano di dismissioni “ entro settembre”. Vale la pena, allora, mettere in ordine le idee e capire perché le privatizzazioni sono non solo utili, ma anche necessarie.

Generalmente, quando si discute di privatizzazioni lo si fa in riferimento al gettito ricavabile o come se le privatizzazioni fossero una scelta quasi religiosa. Si tendono, invece, a trascurare tre elementi fondamentali: a) cosa privatizzare (qui Nicolò Bragazza e Giovanni Vecchio); b) come come farlo ( qui ce ne occupiamo con Alberto Saravalle e qui il decalogo che abbiamo sviluppato come IBL); 3) perché farlo.

In questo articolo intendo affrontare l’ultimo punto. Ci sono, infatti, quattro grandi ragioni per cui la scelta di privatizzare va fatta subito (andava fatta prima, in realtà), va fatta in modo radicale, e va fatta con convinzione. Parlerò soprattutto delle imprese controllate direttamente e indirettamente dal Tesoro, ma in buona parte quello che dico si applica anche alle partecipate locali e agli immobili, pur tenendo conto di alcune difficoltà aggiuntive legate, tra l’altro, alla dispersione della proprietà tra migliaia di enti e l’assenza di un censimento affidabile a livello nazionale.

In ordine di importanza, le ragioni per cui bisogna privatizzare sono: 1) le privatizzazioni portano concorrenza; 2) le privatizzazioni portano trasparenza; 3) le privatizzazioni portano giustizia sociale; 4) le privatizzazioni riducono il debito pubblico. Per tutte queste motivazioni, sia prese singolarmente sia prese nel loro complesso, una politica di privatizzazioni è oggi un passaggio ineludibile nel difficile percorso di risanamento del paese.

Sarebbe ingenuo pensare che, da sole, le privatizzazioni bastino a rendere servizi migliori, prezzi più bassi e chissà quali altri benefici. Sarebbe ancora più ingenuo sostenere che tali effetti possano sortire nell’immediato. Ma le privatizzazioni sono condizione necessaria, ancorché non sufficiente, a perseguire questi obiettivi. E’ politicamente sciagurato stare seduti su una tale montagna di quattrini, e rifiutarsi di raccoglierla e metterla a frutto.

1) Le privatizzazioni portano concorrenza

La ragione di gran lunga più importante per privatizzare è che, in presenza di soggetti dominanti a trazione pubblica, la concorrenza funziona poco e male. Si parla molto degli effetti nefasti delle privatizzazioni che non sono precedute da politiche di liberalizzazioni. Si parla invece molto poco della distorsione implicita della proprietà pubblica delle imprese (qui un caso studio). In parte perché è difficile misurarla, dato che si estrinseca soprattutto nell’influenza sui comportamenti di lungo termine (a partire dalle scelte di investimento).

Tuttavia, vi sono almeno due macro distorsioni riconducibili alla proprietà pubblica.
i) I concorrenti, attuali e potenziali, scontano nelle proprie decisioni il rischio (o la certezza, in alcuni casi) che il conflitto di interessi tra il governo e le aziende partecipate spingerà ad adottare politiche favorevoli a queste ultime, perché in caso contrario il governo stesso subirebbe perdite. Si noti che, in virtù di tale percezione, ci saranno meno newcomer che investiranno meno, con la conseguenza che non solo sarà ridotta la concorrenza attuale, ma anche quella potenziale, con tanti saluti alla “contendibilità dei mercati”. Nel lungo termine, però, è la contendibilità il più efficace pungolo verso l’innovazione e il miglioramento qualitativo, oltre che contro l’aumento dei prezzi (perché so che, se approfitto troppo della mia posizione e alzo i prezzi, qualcuno arriverà con offerte migliori e mi soffierà i clienti).

ii) Quando parliamo di concorrenza, tutti pensiamo alla mobilità del consumatore e, di conseguenza, alla contendibilità delle quote di mercato. Questo è in effetti un aspetto molto importante (nonché quello determinante nel breve termine) ma non è l’unico. Nel lungo termine, concorrenza è anche contendibilità degli asset: le imprese relativamente più efficienti devono “mangiare” quelle relativamente meno efficienti. Se queste ultime vengono mantenute in vita, il mercato non evolve, la concorrenza non funziona fino in fondo.

Ora, quando siamo di fronte a imprese pubbliche, già la cessione di singoli asset è una quaresima, ma – ancora più importante – un’azienda pubblica per definizione non è scalabile. Qualunque azionista privato, non importa quanto il suo investimento sia “strategico” (si veda 2), ha un prezzo di riserva oltre il quale è disposto a vendere: ci sono, cioè, “offerte che non si possono rifiutare”, e questo è bene perché implica che, presto o tardi, tutti gli asset finiranno nelle mani di chi li valuta di più. Un azionista pubblico, invece, non ha prezzo di riserva: il Tesoro (o la Cassa depositi e prestiti) non venderà mai le sue partecipazioni per nessun prezzo, a meno che non abbia deciso di farlo, nel qual caso lo farà a qualunque prezzo. Questa decisione è politica, non economica. E la sua natura politica fa saltare in aria i normali meccanismi di mercato: la presenza di imprese pubbliche (specie se in posizione dominante, come accade di norma) è pertanto un ostacolo sia al consolidamento, sia alla disgregazione del settore economico nel quale sono presenti, e dunque frena la ricerca dell’efficienza.

In sostanza, la proprietà pubblica è un freno alla concorrenza. Se questo è vero, in presenza di un quadro normativo compatibile con le consuete dinamiche competitive, le privatizzazioni sono un ingrediente essenziale delle liberalizzazioni. Poiché le liberalizzazioni sono associate a un maggiore tasso di crescita economica – e certamente ciò è vero nel nostro paese – privatizzare è una politica pro-crescita.
 

2) Le privatizzazioni portano trasparenza

Privatizzare è anche un modo per cambiare da un lato il ruolo dello Stato nella società, dall’altro i termini del rapporto tra il pubblico e il privato. Oggi, infatti, la presenza in molti settori dell’economia di imprese a controllo pubblico determina una duplice, patologica tensione. In primo luogo, vi è un conflitto di interessi interno allo Stato (nella sua veste di regolatore, che deve perseguire “il massimo bene per il maggior numero di persone”, e in quella di azionista, che è interessato a estrarre il massimo valore dalle sue aziende). Secondariamente, il rapporto tra lo Stato e i privati non è quello algido che deve separare l’amministrazione dai suoi “utenti”, ma assume una natura più confidenziale e personale, come accade tra colleghi o anche tra concorrenti che però non disdegnano, nel nome del quieto vivere, di farsi dei favori a vicenda. La situazione, insomma, che si crea quando la regia politica – per esempio – dei servizi pubblici locali spinge a “dare un po’ di lavoro a tutti i fornitori delle imprese pubbliche senza far crescere nessuno”. Ecco, questa è la tipica commistione che una politica di privatizzazioni può aiutare a rimuovere.

Per quel che riguarda il conflitto di interessi del primo tipo, credo sia sotto gli occhi di tutti e non vi sia grande bisogno di argomentare. Esistono, naturalmente, degli strumenti per limitarlo: per esempio affidare la proprietà delle azioni ad amministrazioni diverse da quelle incaricate della regolazione dei mercati, e garantire a queste ultime il massimo grado di indipendenza. Ma, alla fine della giornata, è difficile regolamentare il conflitto di interessi in modo così ferreo da neutralizzarlo, e in ogni caso resterà sempre il sospetto che le cose possano cambiare: tanto basta a produrre conseguenze indesiderabili, come spiegato nel punto precedente. Inoltre, basta guardare alla vicenda dell’Autorità dei Trasporti e più in generale la vicenda della regolazione indipendente per capire che i monopolisti pubblici hanno spesso i mezzi per ritardare, castrare o azzoppare proprio quelli che dovrebbero mettergli la cintura di castità. Senza contare che l’apparato regolatorio necessario al controllo sarà più pesante e, quindi, tenderà a ingessare il settore rendendo più difficile la sperimentazione di pratiche innovative (un caso scuola è quello della regolamentazione dei prezzi dell’energia per i clienti “vulnerabili”).

Il conflitto di interessi del secondo tipo è più sottile ma non per questo meno rilevante. Idealmente, il diaframma tra le imprese e l’amministrazione dovrebbe essere di natura tecnico-politica: ma quando questi si trovano a competere, fatalmente arriverà l’occasione per fare business assieme, a maggior ragione in un paese dove la natura del capitalismo è “relazionale” come in Italia. Ciò produrrà comportamenti rugginosi e opachi, minore trasparenza e, in genere, spesa pubblica maggiore, e renderà anche più oneroso l’esercizio del controllo da parte sia degli enti preposti, sia della magistratura perché si sa, cane non morde cane.

A questo si aggiunge un ultimo punto: la proprietà pubblica viene spesso giustificata sul terreno dell’“italianità” e della “strategicità” delle imprese coinvolte. Sull’italianità non mi voglio dilungare: è un concetto privo di senso economico, come spiega Alberto Mingardi qui. La strategicità – anche: mi accontento, allora, di sottolineare che nessuno ha mai fornito una definizione astratta di cosa diavolo sia un’impresa (o un asset) strategico. Se poi ci accontentiamo di una definizione operativa (“è strategico ciò che la legge definisce come strategico”) allora vale la pena ricordare che già esiste una normativa specifica sulla golden share, che identifica gli asset “strategici” e assegna al governo tutti i poteri di cui ha bisogno, e anche di più, per resistere alle fantomatiche minacce alla sicurezza nazionale. Chi teme che i cinesi, i russi o i rettiliani vogliano mettere le mani sui nostri “asset strategici” per ritorcerli contro di noi, può stare tranquillo. Se anche vogliamo “comprare” l’argomento della strategicità, la proprietà pubblica non deve necessariamente essere parte della risposta.

3) Le privatizzazioni portano giustizia sociale

La terza ragione per cui privatizzare è necessario è forse la più controintuitiva: le privatizzazioni portano giustizia sociale (e anche, nel medio termine, occupazione).

Pure qui, la spiegazione è articolata. Una prima banale ragione è che i dipendenti delle imprese pubbliche sono generalmente trattati alla stregua di dipendenti pubblici. Inoltre le imprese per cui lavorano sono di fatto sottratte alla possibilità di fallimento. Questo fa sì che, a parità di altre condizioni, sia molto più vantaggioso lavorare per un’impresa pubblica che per una privata all’interno di un medesimo settore economico. Ciò a prescindere dalla produttività: le implicazioni sono ovvie ma, soprattutto, è chiaro che ci troviamo di fronte a due situazioni del tutto simili trattate in modo dissimile. Questo, più ancora che il timore di licenziamenti, spiega per inciso le feroci opposizioni dei sindacati alle privatizzazioni.

La seconda ragione per cui le privatizzazioni portano giustizia sociale sono legate all’argomento sulla maggiore concorrenza connessa alle politiche di privatizzazioni. Distinguiamo due casi. Uno è quello di un’impresa pubblica che, grazie alla sua condizione, riesce a estrarre una rendita monopolistica. In questo caso tutti i consumatori sono chiamati a pagare più del necessario per ottenere beni o servizi prodotti in modo inefficiente (per esempio perché l’impresa che li produce ha un costo del lavoro eccessivo, oppure perché acquista beni intermedi da fornitori non competitivi, o perché ha una cattiva organizzazione interna, o una combinazione di questi). Talvolta, il processo produttivo è relativamente efficiente e la rendita viene impiegata per erogare generosi dividendi all’ente pubblico azionista, che li concepisce alla stregua di un’entrata parafiscale (un esempio clamoroso sono le partecipate dei comuni, come A2a e Iren , che per le esigenze di cassa degli azionisti sono state costrette a erogare dividendi anche nel 2012, anno in cui chiudevano il bilancio in rosso). In tutti questi casi, e in altri analoghi, la società sussidia o le imprese pubbliche, o i loro dipendenti, o i loro fornitori, o i loro azionisti in modo improprio. Cioè la società nel suo complesso è impoverita dalla proprietà pubblica attraverso prezzi eccessivi dei beni o servizi.

Oppure, può verificarsi il caso opposto: un’impresa pubblica percepisce dei sussidi in quanto pubblica (e non necessariamente in virtù della natura pubblica del servizio che offre); oppure, che è lo stesso, percepisce più sussidi di quanti ne richiederebbe un’impresa più efficiente; o, ancora, non percepisce sussidi diretti ma produce un buco di bilancio che prima o dopo dovrà essere colmato dall’azionista pubblico. Di fatto, ci troviamo nella medesima situazione descritta sopra, tranne che l’impoverimento della società avviene non attraverso prezzi troppo alti (cioè l’estrazione di una rendita) ma per via fiscale. Sul piano distributivo c’è una certa differenza, ma in prima approssimazione (e in media, a parità di extra-profitto, che esso vada individendi o assuma la forma di x-inefficienze) le due tipologie sono del tutto comparabili.

Un esempio è quello di Tirrenia (che in un paper IBL abbiamo definito ” l’Alitalia dei mari“): in seguito alla sua “privatizzazione” (peralto una vicenda tormentata e discussa su cui non è il caso di entrare) il costo dei traghetti da e per la Sardegna è cresciuto in misura significativa. L’Antitrust ha ipotizzato un cartello tra le compagnie concorrenti, ed è possibile, ma molto probabilmente quell’incremento di prezzo riflette, almeno in parte, il mancato flusso di cassa dai contribuenti italiani all’ex compagnia di bandiera. In pratica, nel nome della proprietà pubblica tutti gli italiani sussidiavano quelli che andavano in vacanza in Sardegna.

Rimuovere questi sussidi tra categorie di consumatori o contribuenti e ristabilire il principio per cui le aziende devono essere incentivate a migliorare i loro processi produttivi cos’è, se non un atto di giustizia sociale?
 

4) Le privatizzazioni portano meno debito pubblico

Il punto meno importante – ma politicamente determinante – rispetto alle privatizzazioni è che vendere beni dello Stato serve ad abbattere il debito pubblico, che come ricorda il contatore dell’IBL è in continua e terrorizzante ascesa. Il debito pubblico è un problema sia perché solleva dubbi sulla tenuta dei conti pubblici del nostro paese, sia perché qualunque osservatore razionale capisce che un elevato debito oggi corrisponde a elevata tassazione domani, in presenza di tassi di crescita contenuti (a chi fa spallucce bisogna ricordare che, se oggi siamo costretti a spendere circa il 5% del Pil in interessi e a mantenere un corrispondente avanzo primario, è proprio perché ieri abbiamo ignorato questo tipo di problema).

Privatizzare serve anche a fare cassa: se il gettito delle privatizzazioni viene impiegato per abbattere il debito in misura corrispondente, otteniamo il duplice risultato di aumentare l’affidabilità del nostro paese (perché è meno indebitato) e di ridurre la spesa pubblica (attraverso una minore spesa pubblica per interessi pari a circa 5 centesimi per ogni euro di minore debito pubblico).

Una obiezione molto frequente è che, in alcuni casi, le imprese pubbliche pagano dividendi superiori al costo del debito (per esempio la solleva Mario Seminerio qui). Questa obiezione merita una risposta attenta perché vi sono casi, per esempio Eni o Enel, in cui ogni euro investito rende allo Stato (poco) più di quanto lo Stato risparmierebbe sugli interessi utilizzando lo stesso euro per ridurre il debito.

Andiamo, dunque, per gradi.
i) La larga maggioranza del patrimonio pubblico ha rendimento molto inferiore al costo del debito, o addirittura negativo. Secondo le stime di Edoardo Reviglio (risalenti al 2011, ma per questo tipo di ragionamento qualitativo sono sufficientemente precise) il patrimonio immobiliare dello Stato ha un rendimento medio dello 0,1% (contro un target del 6%); tutte le partecipazioni societarie, in media, del 5,4% (contro il 7,4% teoricamente raggiungibile); le concessioni dello 0,5% contro un target del 6,3%. A livello locale si riscontrano dati simili. Questo significa non solo che sarebbe conveniente privatizzare per ridurre il debito, ma anche che la proprietà pubblica determina una ulteriore perdita di efficienza dovuta al fatto che lo Stato è un pessimo asset manager. Due ottime ragioni per privatizzare immobili e società, tranne quelle più remunerative.

ii) Veniamo così a Eni ed Enel: perché mai lo Stato dovrebbe sbarazzarsene, visto che fruttano dei bei quattrini? Una parte della risposta l’ha fornita Alberto Bisin qui: il valore di vendita di un asset corrisponde al valore attuale netto del flusso atteso di dividendi futuri. Quindi, in questa prospettiva, l’operazione è neutrale (mentre è a segno positivo nel caso dei carrozzoni, perché in quella circostanza il valore di cessione incorpora parte delle aspettative sulla possibilità estrarre valore, tramite maggiore efficienza, che lo Stato non è capace di creare). In altre parole, avere il capitale tutto e subito (il gettito della privatizzazione) oppure poco per volta (i dividendi annuali) è equivalente dal punto di vista attuariale. Solo che oggi lo Stato ha più bisogno di capitale-tutto-e-subito che della prospettiva di un cash flow più o meno affidabile nel medio termine (IMHO meno, ma è un altro discorso nel quale non voglio entrare). Questo aspetto contabile, però, non tiene conto di quanto già illustrato, in particolare in relazione alle prospettive di maggiore concorrenza: se le privatizzazioni hanno l’effetto di stimolare la crescita, allora esse corrispondono (nel futuro) a più Pil e, a parità di altre condizioni, più gettito fiscale: ne segue che l’operazione, contabilmente neutra, è economicamente positiva.

iii) Questo conduce a un breve ma fondamentale caveat : per le ragioni sopra illustrate, le privatizzazioni devono essere effettuate con un occhio di riguardo alle loro conseguenze. Al modo, cioè, in cui esse possono alterare la struttura e il disegno del mercato. Questo può implicare – anzi, implica quasi sempre – la consapevole rinuncia a una parte del gettito potenzialmente ottenibile. Se vogliamo massimizzare il gettito, dobbiamo cedere dei monopoli: ma questo, oltre a essere politicamente e socialmente poco accettabile, è anche economicamente poco conveniente nel medio termine. Le privatizzazioni, come ha scritto Il Foglio, non possono essere solo espediente tecnico: devono essere anche e soprattutto scelta politica.
 

Conclusione. Le privatizzazioni convengono
Ci sono molti modi di guardare alle privatizzazioni. Generalmente lo si fa con occhiali molto ideologici o, al massimo, collocando le privatizzazioni nell’ambito delle scelte di bilancio dello Stato italiano. In realtà, gli effetti delle privatizzazioni, specialmente se ben fatte, vanno molto al di là del loro impatto contabile, che anzi da diversi punti di vista è l’aspetto meno rilevante sia riguardo al modo in cui esse vengono messe in atto, sia alle ragioni sottostanti.

Vi sono quattro grandi ragioni per cui l’Italia dovrebbe privatizzare tutto e subito – cioè avviare immediatamente un processo credibile di cessione dei propri asset, articolato su un cronoprogramma noto in anticipo e di estensione grossomodo pari alla restante parte della legislatura. Primo: privatizzare è un modo di completare la liberalizzazione dei mercati, perché – in presenza di un quadro regolatorio pro-competitivo – rende contendibili sia le quote di mercato, sia i diritti di proprietà sugli asset. Secondo: privatizzare contribuisce a delineare meglio il confine tra il pubblico e il privato, rimuovendo i conflitti di interesse e costringendo i fenomeni corruttivi più o meno spinti alla patologia dell’illegalità, piuttosto che alla fisiologia della gestione pubblica. Terzo: le privatizzazioni sono anche un modo per fare piazza pulita di sussidi ed extraprofitti che comportano dei trasferimenti da alcune categorie di consumatori (o contribuenti) ad altre. Anche a causa dell’opacità che le contraddistingue, noi tendiamo ad accettare da imprese pubbliche livelli di inefficienza e spreco che non tolleriamo da imprese private. Quarto: le privatizzazioni servono a dare un forte segnale di attenzione al debito pubblico che, nel mezzo di una cosa nota come “crisi del debito sovrano”, non è proprio l’ultima delle priorità. Naturalmente quest’ultimo punto non va inteso come alternativa, ma come necessario complemento, a una seria revisione della spesa: non solo vogliamo abbattere il debito, vogliamo anche impedire di trovarci tra qualche hanno nella stessa situazione, ripetendo gli errori degli anni Novanta.

Infine, c’è un’ultima ragione politica per cui le privatizzazioni convengono. Quando se ne discute, capita sempre qualcuno che faccia notare come l’azienda x, privatizzata nell’anno y, fosse all’epoca alla frontiera tecnologica e serbatoio di competenze inimmaginabili, mentre oggi versa in condizioni cattive se non disperate. Non solo questa obiezione muove generalmente da una valutazione alquanto ottimistica del punto di partenza: ma, soprattutto, conduce inevitabilmente alla risposta che le privatizzazioni si fanno proprio perché non vogliamo più che questo tipo di problemi siano problemi politici, cioè di tutti. Le aziende crescono e arretrano, hanno grandi successi e vanno incontro a fallimenti drammatici. Ma lo fanno a rischio e pericolo di chi ci ha messo volontariamente i propri soldi: e il fatto che ce li abbia messi volontariamente provvede un incentivo a vigilare con attenzione.

Un’impresa pubblica, invece, è di tutti nostro malgrado , e pertanto non è controllata da nessuno, anche perché sappiamo di non avere alcuna influenza all’atto pratico. Quando si privatizza, il destino di quell’impresa viene slegato da quello di ciascuno di noi, tranne quelli che vogliono diversamente e manifestano questa volontà comprandone le azioni.

La portata dei benefici sotto questo profilo è incalcolabile. Pensate solo a due esempi. Uno interno: una vertenza occupazionale. Non è la stessa cosa, se quella è una faccenda circoscritta tra l’impresa e i suoi dipendenti – per quanto grave e per quanto essa possa interrogare il resto della società – e se, invece, coinvolge politici di ogni ordine e grado i quali prendono scelte sulla base di incentivi distorti (perché allocano, in base alla propria convenienza, o in base a quella che credono sia la convenienza generale,i soldi altrui). Altro esempio, di speciale attualità in questi giorni: immaginate che un’impresa italiana sia coinvolta in uno scandalo internazionale, per esempio di corruzione. Fa una enorme differenza se quell’azienda è un’azienda con degli azionisti con nome e cognome, o se quell’azienda agisce (o è percepita come se agisse) in nome e per conto del governo italiano. Nel primo caso, lo scandalo non ha necessariamente implicazioni politiche; nel secondo caso, sì, e addirittura la politica estera del paese può essere manovrata nell’interesse di quell’impresa (che, in fondo, coincide col governo, quindi che c’è di male?).

Privatizzare è, in ultima analisi, un modo per tutelare la terzietà del governo, sia nelle partite domestiche sia in quelle internazionali. Privatizzare non è un modo per indebolire lo Stato, ma per rafforzarlo garantendo dei confini netti – anziché sfumati, labili – tra pubblico e privato. Non fosse che per questo, dovremmo privatizzare tutto, subito e bene.
 

Twitter: @CarloStagnaro

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter