“Ripresina” o no, non torneremo mai a prima della crisi

Il mito “jobless recovery”

Gli ultimi dati sulla disoccupazione diffusi dall’Istat e da Eurostat, ripropongono l’antico dibattito sulla ripresa con meno occupati del ciclo precedente. A luglio il tasso di disoccupazione si è fermato al 12%, uno dei picchi storici nel dopoguerra. La buona notizia è che non cresce e forse potrebbe cominciare a scendere. Le cattive notizie sono che il numero di persone in cerca di occupazione è ancora aumentato di 370 mila unità e arriva a tre milioni 75 mila, nel secondo trimestre dell’anno, mentre gli occupati si sono ridotti a 25 milioni 536 mila (- 215 mila). Non solo. Il tasso di attività resta ancora molto basso. Colpisce la quota di giovani disoccupati: 37,3% tra i 15 e i 24 anni, anche se questa statistica va ridimensionata visto il prolungamento del periodo di formazione; più significativa la quota tra i 18 e i 29 anni che resta altissima (27,7%) e in aumento con un numero di disoccupati pari a un milione e 70 mila, oltre un terzo del totale. Ancor più preoccupante è che da un anno scendono non solo i lavoratori a tempo pieno e posto fisso, ma anche a quelli part time e a termine. Dunque, esiste una vera emergenza, non c’è alcun dubbio. E molti sostengono che la situazione peggiorerà, perché siamo in presenza di una ripresa economica accompagnata da una distruzione di posti di lavoro. È così?

Di jobless recovery si parla almeno dai primi anni Trenta, quando ci fu un effimero recupero dopo la caduta post 1929. Ma il tema è divenuto un vero e proprio refrain cinquant’anni dopo, quando Ronald Reagan venne accusato di aver distrutto più posti di lavoro di quanti ne avesse creati. Una eco ci fu anche nell’Italia craxiana che aboliva la scala mobile. Poi una nuova fiammata nel 1993, quando Bill Clinton appena eletto guidò la ripartenza puntando sugli animal spirits (troppo secondo i suoi critici) e non sul deficit spending (portò addirittura il bilancio in pareggio). Di nuovo, l’accusa politicamente infamante cadde su George W. Bush che, arrivato alla Casa Bianca, doveva affrontare gli effetti provocati dallo sgonfiarsi della bolla internet e diede ordine ad Alan Greenspan di stampare moneta a volontà. Ogni volta, la ripresa ha spazzato via gli incubi, anche se solo fino alla recessione successiva. Come stanno le cose adesso?

L’economia americana dal 2010 cresce senza soluzione di continuità. Non come un tempo, il passo è lento anche se un prodotto lordo che sale del 2,5% rappresenta una meta per ora irraggiungibile dall’Unione europea. Nel frattempo il tasso di disoccupazione è sceso dal 10 al 7,4 per cento. Ancora troppo alto. La Federal Reserve ha fissato a 6,5 l’obiettivo, oltre il quale comincerà a stringere i cordoni della borsa. Dunque, di questo passo, una svolta nella politica monetaria dovrebbe avvenire nella primavera dell’anno prossimo. In ogni caso, sembra strano parlare di jobless recovery. A meno che non si voglia intendere il grande cambiamento nella struttura dell’occupazione che la crisi ha messo in moto. Non di un fattore congiunturale si tratta, ma di un aggiustamento strutturale.

Negli Stati Uniti, prima ancora che nell’Unione europea, dopo la riconversione della vecchia industria avvenuta negli anni Ottanta, dopo il boom high tech degli anni ’90, l’ultimo decennio è caratterizzato dalla penetrazione dell’economia dell’informazione nella manifattura e nei servizi. La crisi del 2008 ha accelerato il processo non solo perché ha reso più difficile il suo finanziamento, ma perché il salto tecnologico ha investito anche le banche e la finanza. Dunque, l’intero modo di produrre, vendere, consumare, divertirsi, comunicare (si pensi al terremoto nella tv e nell’editoria, provocato dai nuovi media) viene sconvolto. Ciò aumenta la flessibilità e la precarietà dei vecchi lavori. Mentre i nuovi posti che si creano sono essi stessi incerti, spesso meno pagati oppure con una retribuzione fortemente legata al risultato aziendale. Di qui una generale sensazione di instabilità permanente.

Se guardiamo alla congiuntura, non c’è aria di jobless recovery nemmeno in un Paese come la Germania. Grazie al fortissimo rimbalzo del 2010 e 2011, la disoccupazione tra gli adulti è al 5,3% e quella tra i giovani tra i 15 e i 24 anni raggiunge appena il 7,7%, il livello più basso d’Europa. Un risultato ottenuto anche grazie alle riforme del mercato. Le agenzie del lavoro, il ricorso massiccio all’apprendistato, le nuove regole più stringenti sui sussidi, hanno scremato una gran parte di quella zavorra creata da un welfare troppo permissivo e riattivato le energie, la voglia (e la necessità) di tornare attivi tra quell’ampia massa di scoraggiati che rappresenta in Paesi come l’Italia o la Spagna il problema forse più grande.

Anche in Italia, la storia delle recessioni a partire dalla prima “congiuntura” del 1963-64, mostra che ogni ripresa è stata accompagnata da una riduzione del tasso di disoccupazione. Superata la soglia del 6% dopo la crisi petrolifera del 1973, scende verso il 5, poi balzo all’in su con la seconda crisi petrolifera e la ristrutturazione della grande industria che da allora comincia un declino inarrestabile con emorragia continua di occupati. Nel 1987 i senza lavoro raggiungono il 12%. Poi comincia la discesa, la quota si dimezza e tocca di nuovo il 6% nel 2005. Dalla crisi del 2008 in poi si torna indietro verso il record negativo del 1987. Ma ci si torna, anche in Italia, con una struttura dell’occupazione completamente diversa.

La fine della grande impresa ha creato, come si sa, un nuovo modello produttivo nella manifattura e nei servizi ad essa collegati. Le aziende piccole e diffuse, i distretti, il quarto capitalismo, hanno generato nuovo lavoro dipendente, indipendente o parasubordinato. Il popolo delle partite Iva è composto non solo di microimprenditori, ma di operai e impiegati nella nuova fabbrica diffusa. La crisi del 2008 ha colpito anche questa struttura, imponendo una drastica selezione, un doloroso e pesante aggiustamento. Mentre s’intravedono i primi segnali della prossima rivoluzione nei servizi e nella finanza. La ripresa, dunque, arriva quando tutto questo ribolle sul mercato del lavoro. Siccome sarà una ripresina-ina-ina, difficilmente potrà avviare un recupero altrettanto forte come quello del ciclo precedente. E di nuovo si pongono gli interrogativi sulla qualità, non solo sulla quantità, dell’impiego.

Da dove verranno i posti di lavoro? Non c’e’ un settore leader né una ricetta magica. Export, nuova specializzazione, nuovi mestieri nella economia della informazione, nuovi servizi. Una grande riforma del welfare, per esempio, potrebbe creare occasioni nel privato mentre ridimensiona un pubblico improduttivo. Il saldo dipende dal tasso di crescita, la variante decisiva è sempre quella e ci riporta alla politica economica, agli stimoli fiscali, alle riforme strutturali.
Esiste una politica attiva del lavoro che possa migliorare la situazione? Tra riforme e controriforme, si sente forte il bisogno di continuità e di stabilità. Lo sentono i lavoratori e i datori di lavoro. Chi ha la possibilità e la volontà di assumere deve contare su una cornice giuridica e contrattuale certa. E tuttavia siamo ancora a metà del cammino. Il grande recupero di occupazione degli anni Novanta è venuto in modo massiccio grazie alla riforma Treu, alla introduzione dei co.co.co e dei nuovi rapporti flessibili. I precari in qualche modo hanno salvato la situazione e hanno salvato anche l’Inps, i conti dell’Istituto lo dimostrano: sono contributi che entrano e non escono. Adesso, pure i ranghi dell’ultimo “esercito industriale di riserva”, si sono ristretti. La riforma Fornero sebbene mossa da una corretta ispirazione, è caduta nel momento sbagliato, nel bel mezzo della recessione. L’Istat fotografa esattamente questa situazione, come si vede nei grafici riportati sopra.

Intanto, arriva la resa dei conti per la cassa integrazione. È stata un ammortizzatore efficacissimo. Senza di lei davvero staremmo peggio della Spagna. Adesso viene rifinanziata, però le risorse per quella straordinaria e in deroga sono sempre meno. Da anni si parla di riformare il sistema, e anche il governo Letta ha sollevato la questione. Tra il 2007 e il 2008 c’erano sul tavolo diverse proposte, ma sia Giulio Tremonti sia Maurizio Sacconi fermarono tutto e decisero che l’unico modo di creare un argine sociale alla crisi era mantenere in vita il vecchio strumento, e senza limiti. Hanno scelto il certo per l’incerto e hanno avuto ragione. Solo che ciò poteva funzionare solo nel breve termine. E comunque avrebbe trovato un limite nel bilancio pubblico. Adesso che si scorge la ripresa, mentre si parla di reddito minimo garantito e salario di cittadinanza, è il momento di tirar fuori dai cassetti la riforma. È roba che scotta, può diventare una bomba a orologeria. E più che mai c’è bisogno di un ampio consenso. Ma il governo è occupato, dopo l’Imu, a rinviare l’Iva. Il lavoro, purtroppo, non sembra una priorità.

Twitter: @scingolo

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